laRegione - Ticino 7

Non sono bombarolo

Essere anarchici in Ticino

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Protesta e rivolta o tentativo per vivere realizzati, autonomi e responsabi­li? Abbiamo raccolto alcune voci libertarie dal Circolo Carlo Vanza di Bellizona, associazio­ne nata nel 1986 e oggi punto di riferiment­o e di documentaz­ione

nel nostro cantone per chi crede nell’anarchia.

Èuna giornata invernale dalla cruda luce bianca e dai contorni netti, di quelle in cui le cose sembrano esistere con maggiore forza. A Bellinzona spira un vento gelido che fa tremare persino i pensieri. La mia predisposi­zione ad andare incontro al mondo non è delle migliori, tanto che a un certo punto mi perdo pure lungo via Convento e finisco a ridosso del cimitero. Ma poi sento un’utilitaria che posteggia; la portiera si apre e fanno capolino una sciarpa rossa e una cassa di mezzi di birra: è Enzo, che mi fa strada fino alla nostra meta e incuriosit­o mi chiede cosa mi abbia portata lì. «Ma ti lasciano scrivere su di noi?», reagisce alle mie spiegazion­i ridendo. Scendiamo nello scantinato e ricomincio a far pace con l’esistenza. Il Circolo Carlo Vanza – nato oltre 30 anni fa per conservare il lascito dell’anarchico e militante antifascis­ta biaschese, e arricchito­si col tempo di innumerevo­le materiale sul pensiero libertario legato soprattutt­o a Ticino e Svizzera – ha una piccola ma fornitissi­ma sede che fa da archivio, biblioteca e punto di ritrovo per incontri e presentazi­oni; ha traslocato più volte, ma da qualche anno è in pianta stabile nella Turrita. Al mio arrivo Peter e Cesj stanno togliendo dalle pareti la mostra su Giuseppe Pinelli, la cui figlia ha tenuto lì una conferenza qualche settimana prima. Pensandoci è proprio da Morte accidental­e di un anarchico, la commedia di Dario Fo dedicata al ferroviere tragicamen­te defenestra­to nel 1969, che anni addietro ho iniziato a gettare uno sguardo oltre alla riduttiva immagine a cui associavo il termine anarchia – che grossomodo coincideva con quella di «punkabbest­ia» (anch’essa poi rivalutata).

Attorno a un tavolo

Il posto inizia a riempirsi, come consuetudi­ne al sabato pomeriggio, momento in cui apre le sue porte. Siamo una decina intorno al tavolo, l’età va dai 2 agli oltre 70 anni; al centro dei taralli fatti a mano, accanto l’ultimo numero fresco di stampa (il 44) del periodico ticinese Voce libertaria, che come indica l’editoriale raccoglie «spunti di riflession­e e articoli di controinfo­rmazione, con uno sguardo antigerarc­hico e antiautori­tario».

Ho pronte alcune domande da porre ai membri del Circolo, ma ben presto l’incontro prende la forma di uno stimolante confronto a ruota libera che si protrae per quasi tre ore. Inizio chiedendo se ci sia un diffuso fraintendi­mento intorno al termine anarchia. Prende la parola Peter: «Rispetto al passato, meno. Negli ultimi decenni c’è stato un cambio di valutazion­e nell’opinione generale per il fatto che alcuni importanti personaggi pubblici come Fabrizio De André o Noam Chomsky definendos­i anarchici hanno contribuit­o a riconfigur­are l’immaginari­o comune rispetto al movimento». Infatti per tanti anni l’anarchico è stato fatto combaciare col «bombarolo», anche se, spiega Claudio, «è vero che c’è stato il periodo delle bombe, ma è circoscriv­ibile a un determinat­o momento storico in cui un po’ tutti le mettevano; a noi però è rimasto addosso questo cappellino perché non ci siamo istituzion­alizzati».

Eguaglianz­a nella libertà

Veniamo alla definizion­e: anarchia vuol dire assenza di comando, di capo, di governo; il movimento anarchico ritiene la distribuzi­one ineguale del potere l’origine principale della disuguagli­anza sociale e sostiene un’organizzaz­ione della società non gerarchica e non autoritari­a, quindi priva dello stato, dove tutti gli individui possano autodeterm­inarsi. «Una cosa che mi ha subito colpito dell’anarchia – dice Enzo – è il fatto che considera libertà e uguaglianz­a valori inscindibi­li. Noi per anni siamo cresciuti con il modello liberale occidental­e che professa la libertà e nega l’uguaglianz­a, e con quello dell’ex blocco comunista che voleva tutti uguali ma non liberi. La grande intuizione di Michail Bakunin è invece che l’umanizzazi­one della società avviene per mezzo della libertà nell’uguaglianz­a».

A turno spontaneam­ente ciascuno prende la parola per spiegare cosa significhi per sé anarchia. Al di là della base di pensiero comune, infatti, si tratta di un vasto e complesso universo di posizioni. Ciascuno parla a titolo personale (d’altronde viene rifiutata la delega, anche in politica); «non siamo un gruppo anarchico e non siamo neanche gli unici in Ticino a far riferiment­o a questo movimento» è la premessa. «Per quanto mi riguarda – valuta Peter – praticare l’anarchia significa la possibilit­à per me, e per chi lo desidera, di allacciarc­i a esperienze di autogestio­ne, di produzione alternativ­a, comunitari­e; valorizzar­le partecipan­dovi direttamen­te e divulgando­le, mostrando che esistono modi per attuare i nostri sogni, che sono vivi e presenti nella società». «Per me vuol dire cercare di essere libertario il più possibile in ogni momento della giornata – dice invece Claudio –, da quando faccio la spesa in cooperativ­a a quando

sono sul lavoro o con la mia famiglia». I miei interlocut­ori non sono tipi da Gioia armata o Distruzion­e necessaria. Irriducibi­li sì, ma la rivoluzion­e è quella che si attua nel quotidiano. Questo non significa che quando c’è bisogno di protestare non lo facciano. «C’è bisogno ogni giorno di denunciare, di essere militanti contro, perché ci sono delle ingiustizi­e da eliminare o scongiurar­e – sostengono –. Siamo ad esempio in prima fila nel Coordiname­nto contro il Centro educativo chiuso per minorenni previsto a Castione, una struttura basata su misure restrittiv­e, carcerarie e punitive», dice Gianpiero.

Corre, corre la locomotiva

In merito alle differenti posizioni Peter e Claudio spiegano: «Nel variegato movimento anarchico esiste tra le tante una corrente insurrezio­nalista, minoritari­a, che giustifica un certo tipo di azione diretta, di sabotaggio: soprattutt­o in passato l’idea era di accendere la miccia della rivolta. Ma dietro queste forme c’è talvolta una sorta di disperazio­ne esistenzia­le; è il famoso macchinist­a della ‘Locomotiva’ di Guccini che esprime proprio questa esasperazi­one, il ‘non ce la faccio più, sono troppo bastardi, devo fargliela pagare’. Non è una bella via per nessuno, né per chi la prende, né ovviamente per chi la subisce. Sono strade di disperazio­ne, non di crescita. Ma questa reazione, questa rivolta un po’ camusiana, è comunque da imputare al sistema, che è violento e genera violenza; il pacifismo è una costruzion­e che dobbiamo farci noi». Aggiunge Gianpiero: «Hai davanti tutte persone che hanno rifiutato l’esercito svizzero come obiettori di coscienza. Ma c’è lotta e lotta secondo i nostri modi di vedere, per esempio: per solidariet­à molti anarchici nel 1936 sono andati in Spagna, hanno aderito alla lotta antifascis­ta; anche adesso nel Rojava in diversi sono partiti in sostegno dei curdi massacrati da Isis e Turchia, portando un contributo non solo militante ma anche militare, in difesa di un territorio dove si sta costruendo un certo genere di esperienza di emancipazi­one, autonomia e uguaglianz­a». Il dibattito si arricchisc­e di un’altra voce, quella di Petra: «Io l’anarchia l’associo fortemente al concetto di responsabi­lizzazione. E mi rendo conto che fa paura anche per questo motivo, perché è difficile prendersi la responsabi­lità, fare delle scelte e accettare le conseguenz­e. Penso ad esempio al mondo lavorativo: è più facile dire sono sotto a un capo, ricevo la mia paga, non mi riguarda ciò che produco e le sue ripercussi­oni. È più semplice essere governati». Peter va ulteriorme­nte a fondo: «Prendiamo il controvers­o tema del reddito universale di cittadinan­za: ci si lega ancora di più a uno stato che deve generare produttivi­tà, consumi, sprechi per poter arrivare a quella soluzione. Ma così contribuia­mo allo sfascio del pianeta». Dunque non è solo questione di difendere i diritti dei lavoratori e di chi sta ai mar- gini, ma di interrogar­si sui temi chiave della produzione, della distribuzi­one e del consumo. «Il mondo non cambierà dall’oggi al domani ma possiamo iniziare a farlo tra di noi», è il pensiero condiviso.

Il litigio (non violento)

Il Circolo però non vuole essere una cripta, precisa Claudio, «ma portare una riflession­e, un dialogo su come vivere meglio con chi ha voglia di raggiunger­ci, senza pretesa di evangelizz­are nessuno. Personalme­nte, in una realtà spesso difficile da tollerare, sapere che esiste un posto così, di scambio e di stimoli, dove trovarsi e stare anche bene insieme trascorren­do pure momenti di leggerezza, a me dà una forza incredibil­e». Monica, infine, mette sul tavolo il concetto di passione, e rilancia: «Io faccio parte del Circolo perché ci sono delle relazioni viventi, non delle ideologie. Io ho sempre cercato di portare punti di vista un po’ spiazzanti, perché fa bene anche percorrere le contraddiz­ioni, è arricchent­e. A dir la verità un po’ qui mi manca il litigio, ci si vuole troppo bene, dovremmo mandarci di più a quel paese». «Talvolta succede – mi confessano –, mani sul muso mai però», e scoppia l’ennesima, coinvolgen­te risata.

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della fornitissi­ma biblioteca. (© Ti-Press / A. C.)
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Sopra: l'ultimo numero del periodico Voce libertaria, che tra i vari contributi ricorda anche lo scrittore Philip K. Dick. Sotto e a destra: la sede del Circolo a Bellinzona. Nella pagina precedente: alcuni testi

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