Documentario RSI vince il Prix Europa
Il documentario Ma quando arriva la mamma? di Stefano Ferrari (nella foto), realizzato per il magazine domenicale Storie e trasmesso da RSI LA 1 il 23 dicembre 2018, ha conquistato uno dei riconoscimenti televisivi più importanti, il Prix Europa, istituito a Berlino nel 1987, imponendosi quale miglior produzione dell'anno sul tema della diversità culturale. Narra la vicenda di Ahmad, un bimbo di 7 anni affetto da una malformazione del midollo spinale, e della sua famiglia, fuggita dalla Siria e divisa tra Svizzera, Germania e Iraq. Prodotto dalla SSR-RSI, Ma quando arriva la mamma? aveva già vinto il Premio del pubblico a Castellinaria 2018. Abbiamo rivolto alcune domande all’autore.
A chi dedichi il premio che hai appena ottenuto?
Mi permetto due dediche: la prima va a tutti i bambini che non hanno avuto l’aiuto di un gruppo di fantastiche mamme, come è successo per Ahmad, a cui la guerra sta negando l’infanzia. E poi una dedica personale al mio "fratello" Claudio Taddei, che era presente all’anteprima di Castellinaria. Guardo lassù e sento il suo abbraccio.
Come nasce un tuo progetto? Cosa ti fa dire “ecco un argomento da affrontare”?
Da quando sono salito sul magnifico ottovolante dei documentari, una quindicina di anni fa, sono state più le storie a cercare me che non il contrario. Se, di fronte ad una vicenda, percepisco quella che in Uruguay si chiama buena onda,
allora la propongo al mio produttore e amico Michael Beltrami, al quale attribuisco una grande sensibilità nel riconoscere il potenziale di una storia.
Cosa conta di più in un documentario come i tuoi?
Seguendo storie di vita mentre queste si sviluppano e senza mai sapere come andranno a finire, sento che ciò che conta di più è il farmi piccolo piccolo (ahimè, con i miei 100 kg non è facilissimo…) nella speranza di quasi sparire, di permettere ai protagonisti di fare la loro vita. Forse non sempre si dimenticano di me, ma spero di farli sentire sempre liberi di essere se stessi.
Hai spesso girato anche all’estero, per esempio nei campi profughi. Come riesci a comunicare – soprattutto con bimbi piccolissimi – se non parli la loro lingua?
Con le lingue sono un disastro. Credo però moltissimo nel linguaggio del corpo, che non mentemai. E allora, per usare le parole di uno straordinario muratore che ho filmato dieci anni fa, “avvicinati con la verità del cuore” e tutto è possibile. Fra un documentario di Storie e uno di Falò ci sono differenze essenziali, di cui un regista e autore deve tener conto?
Certo, si tratta di modalità di raccontare diverse, anche se hanno dei punti di contatto. Anni fa ho avuto l’onore di realizzare una lunga e complessa inchiesta per Falò (Viaggio nella pedofilia). Sono partito dal tema, che ho cercato di approfondire nel suo insieme, nelle sue varie sfaccettature. Per Storie, invece, solitamente si parte da una singola vicenda che può poi naturalmente portarci dentro un tema. Ammiro molto sia Falò che Storie, due trasmissioni di approfondimento che RSI colloca in prima serata (cosa per nulla scontata nel panorama televisivo europeo). Ci permettono infatti di riflettere sul nostro mondo grazie a fantastici colleghi che lavorano con una passione e un impegno straordinari.