Ridi pagliaccio. I clown e il cinema
‘Senza ridere si potrebbe sopravvivere, ma non si vivrebbe bene’ sosteneva Dimitri. Non sempre però i clown nascono per divertire e allietarci, anzi...
Alle nostre latitudini il circo e la sua creatura più rappresentativa, il clown, godonodi indiscussa fortuna. Anzi, potremmo affermare, pensando a figure come Dimitri o Gardi Hutter, che costituiscano uno dei maggiori patrimoni della nostra cultura. E nonc’è tablet o social che tenga: il successo che questo tipo di spettacolo continua a riscuotere anche tra il pubblico più giovane accende un barlume di speranza sulla possibilità di un altro tipo di divertimento, nonmediato e legato a un’esperienza della quale fruire rigorosamente dal vivo.
Ma il clownnonè solo foriero di risate: la sua immagine a livello globale è più spessoaccostataallapauraeall’inquietudine. Basti pensare a quella copertina del New Yorker del 2017, in cui un Donald Trump travestito da pagliaccio spuntava dall’oscurità di un bosco. Per l’autore dell’illustrazione, Carter Goodrich, era la raffigurazione di un «incubo nazionale» arrivato a turbare le notti dell’America democratica. Ironia della sorte, il cognome del Presidente Usa ricorda anche una delle tipologie più note di clown, il Tramp (vagabondo), la figura tragicomica a cui si ispirò Charlie Chaplin per dipingere il suo indimenticabile Charlot. Alti e bassi che dimostrano quanto il pagliaccio rimanga una delle figure più radicate e feconde dell’immaginario collettivo, conbuonapacedi quellanota catenadi fast food che avrebbe voluto ridurlo a mero feticcio global.
Sullo schermo vincono loro
» stato proprio grazie a un pagliaccio che, per la prima volta, un premio prestigioso come il Leone d’oro della Mostra del Cinema di Venezia è stato assegnato a un cinecomic. Ovvero, uno dei templi del cinema d’autore ha riconosciuto ufficialmente lo statuto di opera d’arte a un film di supereroi, il recentissimo Joker. Chissà se il regista Todd Phillips, finora noto per la saga Una notte da leoni, si sarebbemai aspettato di strappare il premio a Roman Polanski, con un filmsull’antagonista di Batman?
Quel che è certo è che Phillips è stato abbastanza scaltro da scegliere uno dei maggiori attori viventi, Joaquin Phoenix, per uno dei ruoli chiave del cinema contemporaneo – Joker era già stato portato in scena da «mostri sacri» come Jack Nicholson e il compianto Heath Ledger –, e da innestare il racconto fumettistico sulle cupe atmosfere scorsesiane di Taxi Driver e Re per una notte. Così la parabola diArthurFleck, clown freelance che sogna di sfondare nel mondo della stand-up comedy, è risultata una geniale allegoria di una patologia del nostro tempo: l’ossessione per il divertimento e la leggerezza a tutti i costi.
Ma questo non è il solo caso recente di «ribalta clownesca», perchÈ le nostre sale sono state prese d’assalto da un altro celebre pagliaccio: Pennywise, la
creatura nata dalla penna di Stephen King e ora protagonista di It - Capitolo
2. Nonostante la narrazione bipartita di AndrÈs Muschietti impallidisca di fronte all’audacia del romanzo, il film ha sbancato al botteghino, complice l’effetto nostalgia su una generazione che era rimasta letteralmente traumatizzata dalla miniserie televisiva degli anni Novanta. E che ora torna in sala per riprovare, forse, quella paura infantile legata al mistero di un sorriso disegnato, una faccia dipinta di bianco e una parrucca colorata.
Il terrore celato
Ma com’è possibile che una figura nata per allietare possa svolgere anche il ruolo opposto, e abitare i nostri incubi, tanto cinematografici quanto reali? Il quesito se l’era posto persino William Shakespeare, a cui si deve il termine «clown»: il drammaturgo era solito chiamare così i personaggi doppi, di difficile lettura. E in effetti le fattezze di questa maschera lasciano costantemente in dubbio coloro che la osservano, nell’incapacità di comprenderne davvero lo statod’animoedunque prevederne le reazioni. Un’indefinitezza che può sfociare in una vera e propria fobia, per laquale è già stato trovatoun nome: coulrophobia.
Secondo uno studio condotto su questo tema dallo psicologo canadese Rami Nader, la paura verso i clown deriverebbe dall’occultamento della loro identità: non conoscere chi abbiamo di fronte scatena in ciascuno di noi risposte irrazionali non sempre controllabili. Il che, in fondo, spiega anche molte altre paure che caratterizzano il presente, tra cui quella dello straniero e del bagaglio culturale che questi porta con sÈ.
Che questa sovrabbondanza di clown nell’intrattenimento, più che farci ridere o farci tremare di paura, voglia soprattutto farci pensare?