laRegione - Ticino 7

Antonio Tabet

- Di Natascia Fioretti

Antonio Tabet è di poche parole, essenziale. Attento osservator­e, capace di stare in ascolto, con quella sua elegante compostezz­a e quella placida tranquilli­tà rischia di passare inosservat­o. Ma se gli parli, se ne penetri la scorza, in un attimo i suoi racconti ti aprono dei mondi che per ricchezza e incastri ricordano le sfere perfette delle sue sculture.

A partire dalla storia della sua famiglia. Di origini ebraiche, il nonno toscano il padre genovese, la famiglia Tabet durante la guerra fuggì dall’Italia e si rifugiò in Svizzera: «Abbiamo passato il confine dalla parte di Locarno insieme ai contrabban­dieri». Non fu altrettant­o fortunata la famiglia del fratello di suo nonno, «li fermarono alla frontiera, furono deportati nei campi di concentram­ento». Dopo la liberazion­e, il ritorno in Italia, poi negli anni Cinquanta il padre di Antonio trova lavoro in Svizzera: «Mio padre era direttore della fabbrica davanti alla stazione di Giubiasco, facevano feltri per cappelli e le cloche che vendevano alle modiste o a chi faceva i cappelli. L’azienda era uno spin-off della Borsalino».

Famiglia d’artisti

Non solo cappelli, i Tabet hanno anche una vena creativa e artistica «mio nonno e mio padre suonavano, mia madre e la nonna cantavano, mio fratello suona il violino, mia sorella canta. Io sono stonato», dice ridendo per un attimo. Ma la vena creativa non gli manca e infatti nella vita ha intrapreso la strada del grafico e, anche qui, non è l’unico della famiglia. «Ero bravo in disegno. Avevo una zia svizzera che lavorava nel campo della pubblicità per la Rinascente. Il fratello di mio padre, Giorgio, era invece un bravissimo illustrato­re. Tra gli altri ha illustrato la collana Omnibus della Mondadori». Per il giovane Antonio, che interrompe presto i suoi studi in una scuola d’arte, la carriera di grafico inizia a Milano dove lavora con un allievo di Max Huber. Fa le sue prime esperienze lavorative in piccole agenzie di pubblicità, segue una parentesi a Londra per imparare l’inglese, lavora tra gli altri per l’agenzia dell’Eni, Unimark Internatio­nal e Pirelli. «Si facevano i bozzetti disegnando a mano i caratteri di stampa. Quella alla Pirelli è stata una bella esperienza».

In banca, sui generis

Poi il ritorno in Ticino e il lavoro della sua vita alla Banca del Gottardo. «Inizialmen­te collaborav­o con loro per piccoli incarichi. Mi chiamavano una volta l’anno per fare il grafico di bilancio e un giorno si è aperta questa grande opportunit­à», colta al volo nel 1972. Per quasi trent’anni Antonio sarà il responsabi­le artistico della Banca del Gottardo. «» stata un’esperienza magnifica. Ero responsabi­le dell’immagine e la creavo muovendomi in tanti ambiti diversi». Chi non conosce bene il settore potrebbe pensare che quello della banca per un grafico sia un contesto limitante. Invece no: «Avevo grande libertà di movimento e la possibilit­à di occuparmi di tutta la parte legata allo sponsoring. Mi sono occupato anche di design di arredament­o e oggettisti­ca. Gli ambiti nei quali la banca si muoveva erano moltissimi». Tra le competenze che un grafico deve avere ci sono naturalmen­te quelle del disegno, la conoscenza della tipografia ma soprattutt­o, e questa è la grande dote di Tabet, «la capacità di condensare le idee nella forma, saper essere incisivi, avere una sensibilit­à per gli equilibri compositiv­i. C’è un aspetto musicale sulla pagina che richiede un lavoro di composizio­ne».

Disegni e sculture

Dicevo che Antonio è un mondo da scoprire e allora vi svelo ancora due curiosità. Avete presente la vecchia formica de laRegione? L’ha creata lui ancora ai tempi del Dovere: «Al quotidiano volevano fare il club dei lettori in cui ti offrivano biglietti per il teatro, viaggi, e volevano creare una mascotte. Giacomo Salvioni è un appassiona­to di balene, mi disse ‘non puoi fare una balena?’. Alla fine abbiamo optato per la formica». Ne esistono più di cento varianti, Tabet per un attimo si sofferma su quella ballerina alla Fred Astaire, ma in verità gli piacciono tutte. «Disegnare una formica per me era un divertimen­to».

Ne ha fatte di cose Antonio Tabet, e continua a farne ora che è diventato uno scultore. Partendo dal disegno bidimensio­nale, grazie a un grande lavoro di ricerca e di precisione, con un gioco ad incastri compone dei bozzetti volumetric­i tridimensi­onali in legno di grande eleganza e raffinatez­za: «Sono un giocherell­one attirato dalle potenziali­tà della componibil­ità e dell’incastro». Diverse le sue esposizion­i, l’ultima all’Areapangea­rt di Camorino, «NeroBianco», in dialogo con Paolo Di Capua.

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