laRegione - Ticino 7

Marco Torri

Fra normalità e disabilità solo il giudizio è sospeso

- Di Samantha Dresti

Si può parlare di tutto con Marco Torri, oggi educatore (ma con una formazione quale assistente sociale) all’Istituto San Nicolao a Bidogno. E si percepisce subito che lui sulla comunicazi­one lavora parecchio: «La realtà è creata dal modo in cui usiamo le parole», e le sue devono aiutare, sorreggere, permettere di osservare le cose in modo positivo. «Sono un po’ come un prete» dice scherzando, anche se chiarisce subito che in realtà a lui la religione non piace granchè. Forse un retaggio legato alla storia della sua profession­e: «In passato coloro che sostenevan­o le persone in difficoltà erano molto spesso dei religiosi».

Questioni di concetto

Lo scopo del suo lavoro è aiutare le persone a vivere meglio rispetto alle condizioni in cui si trovano: sia chi è ben integrato – ma che vive un momento di difficoltà – sia chi è colpito da una disabilità, e ha dunque bisogno di un sostegno continuo. «Bisognereb­be però fare una precisazio­ne sul termine disabilità: nel modello medico l’essere umano è ‘normale’ se rispetta tutta una serie di caratteris­tiche fisiche e mentali. La normalità è un concetto, non è la realtà: è, per così dire, la media delle capacità di tutte le persone. Il nostro modello medico ci dice che se una persona non riesce a parlare o a camminare, per esempio, il problema è in quella persona. Oggi invece si tende a porre l’attenzione sull’interazion­e tra il soggetto e l’ambiente; la disabilità, in questo caso, esiste unicamente in relazione all’ambiente. Se il mondo è tutto a gradini, chi si trova in sedia a rotelle è per forza disabile, perchè la scala è una barriera insormonta­bile. Ma se il mondo è fatto a rampe quella disabilità smette di esistere. » un piccolo esempio, più complicato è certo modificare

l’ambiente per persone con caratteris­tiche ancora più debilitant­i. La nostra profession­e significa anche osservare questa relazione tra persona e ambiente per suggerire possibili cambiament­i che permettano l’inclusione territoria­le e sociale di tutti».

Abbattere le 'opinioni‘

Secondo Marco una delle attitudini più importanti che bisogna coltivare per svolgere al meglio questa profession­e èla sospension­e del giudizio: «Nel mio lavoro dobbiamo sempre stare molto attenti quando parliamo o quando scriviamo i nostri rapporti, nel senso che non dobbiamo mai essere giudicanti: se vedo qualcuno che sorride, non posso scrivere ‘questa persona è felice’, bensì ‘questa persona sorride’. Insomma, è necessario sospendere il giudizio su ciò che gli altri pensano o fanno e lavorare in modo pragmatico, essere in grado di accogliere e di lavorare con chiunque». Anche nel caso di profili molto problemati­ci come possono essere i pedofili, che rimangono ostici e complessi da affrontare anche per gli specialist­i: «» necessario cercare di limitare gli impulsi interni che magari ti suggerisco­no le cose peggiori su questa persona», dice Marco. «Se la legge ti dà il diritto di fare una cosa, vale a dire di aiutare una persona con questo disturbo/comportame­nto, l’operatore sociale deve rispettare questo diritto, anche se va contro la sua morale personale. Non bisogna mai credere di avere in mano la verità». Le etichette, si sa, generano il noto «effetto Pigmalione»: la persona fatica a districars­i dall’idea che ci si è fatti di lei, e questo rischia di bloccare ogni cambiament­o. » invece necessario vedere la vita sotto una luce nuova ogni giorno, cercare di guardare il futuro liberi dal pregiudizi­o su sè stessi e quello degli altri: ciò che sei ora sovente non è quello che sei stato in passato. NÈ quello che sarai in futuro.

I vissuti formano

Chiedo a Marco se ricorda la prima volta in cui si è preso cura di qualcuno. Prima di rispondere tentenna un po’, poi rivela in modo sereno: «Di mia madre. Da bambino ho assistito a diverse scene di violenza domestica, urla, pianti… Mi sentivo già in dovere di aiutarla e sostenerla, e quindi per alcune cose sono cresciuto molto in fretta. La situazione familiare era difficile: mia madre lavorava durante il giorno e frequentav­a una scuola serale, quindi capitava che io spesso badassi a mio fratello, più piccolo di me. Credo che in qualche modo chi lavora negli ambiti sociali abbia fatto questa scelta per capire meglio sè stesso, la sua storia: è la ‘vocazione originaria’, il tuo passato ti spinge a indagare su di te. Sicurament­e a me è successo questo. Ma il dolore vissuto nell’infanzia si può trasformar­e in una ricchezza in grado di aiutare gli altri».

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