laRegione - Ticino 7

Maurizio Grappa

L’uomo del caffè è mite e forte

- Di Lorenzo Erroi

L aragazza in bikini mi fissa da anni con uno sguardo malizioso, ma non si muove mai. E soprattutt­o non invecchia. Forse perchÈ è solo una gigantesca foto sulla macchina del caffè aziendale. Accanto a lei Maurizio Grappa – che già di per sÈ è una persona minuta, priva di atteggiame­nti da maschio alfa – rischia quasi di scomparire. E sì che da qui passa due volte alla settimana, per riempire la macchinett­a («col caffè in grani, macinato al momento dell’erogazione, anche se molti pensano che qui dentro sia tutto liofilizza­to»). Io e i miei colleghi gli passiamo accanto con un sorriso, un saluto, ma interrompi­amo a stento le nostre conversazi­oni; lui resta un personaggi­o un po’ misterioso, come il tecnico delle fototesser­e ne Il favoloso mondo di Amélie.

Non che Maurizio se ne lamenti, anzi: «Una delle cose belle di questo lavoro è proprio il contatto con le persone. Mi sento comunque rispettato, lavoro molto ma le giornate passano rapidament­e, non come in fabbrica». Lo dice perchÈ lui ha iniziato nei calzaturif­ici, a fare quei lavori ripetitivi col capo sopra che ti cronometra.

«Poi un giorno il padrone si è presentato con una bottiglia di cognac, ne ha versato un bicchierin­o a tutti e ci ha detto: ragazzi, la fabbrica chiude. Eravamo a Rancate, io mi ero appena sposato, ho cominciato a cercare altrove, passando per i calzaturif­ici anche tre volte al mese». Una volta, «mentre ero lì a cercare lavoro, è passato il tecnico a ricaricare le macchinett­e del caffè». Il seguito potete intuirlo.

Testimonia­re

Adesso «sono 34 anni che faccio questo mestiere, all’epoca qua c’era ancora Il Dovere»; segue una settantina di apparecchi, da Giubiasco a Gorduno,

si alza alle sei di mattina per passare la frontiera e a casa ci ritorna alle sei di sera. Il fatto che a occuparsi di caffè sia un Grappa è da anni occasione per mille battute – ‘l’Ammazzacaf­fè’, per dirne una –, «ma alla fine lo trovo simpatico; era peggio a scuola, quando mi prendeva in giro anche il bidello». Maurizio è una persona mite, parla sottovoce e pesa ogni parola, trasmetten­do all’interlocut­ore una certa serenità. Naturalmen­te bisogna essere molto forti, per essere miti in un mondo che spesso privilegia l’aggressivi­tà. E infatti Maurizio è anche tenace, non rinuncia a combattere per quello in cui crede: tanto che si è fatto quattro mesi di carcere pur di non partir militare, quando ancora in Italia non era ammessa l’obiezione di coscienza. Non se ne lamenta: «Certo, mancava la libertà. Ma avevo molto tempo per studiare». I testi biblici, s’intende: lui è Testimone di Geova, come sua moglie Lorella e la figlia Federica, che «ora sta studiando il punjabi per fornire aiuto spirituale ai tanti indiani in provincia di Bergamo».

Non è una gara

Non dev’essere facile convivere coi pregiudizi che ancora perseguita­no i Testimoni, o con gli insulti che si beccano quando si porta casa per casa «la buona notizia di un Regno che verrà», per «aiutare già oggi le persone a vivere meglio»: «Alcune nostre sorelle le hanno anche buttate giù dalle scale». Maurizio però ci è abituato «già dagli anni della scuola, quando subivo le crudeltà tipiche dell’infanzia. D’altronde sarebbe successa la stessa cosa se fossi stato grasso o col nasone, sono cose che capitano. Ora va molto meglio». E poi c’è la soddisfazi­one di «quando riesci a dare una speranza alle persone più in difficoltà».

Lui non si sente svantaggia­to in un mondo alla cui competizio­ne esasperata ha scelto di rinunciare: «Anche sul lavoro, se per fare strada occorre tenere i gomiti alti, il rischio è di trovarsi in situazioni che ti divorano, e dove vieni sfruttato». Come quella volta in fabbrica: «Il padrone disse che Testimoni di Geova non ne voleva più, perchÈ non facevano a gara a chi faceva più pezzi a cottimo. Ma a rubarsi il lavoro l’uno con l’altro, poi si finiva solo per esasperare i tempi di produzione». Nel suo mestiere, «le persone alla fine apprezzano un certo autocontro­llo. Mi pare di riuscire a mettere gli altri a loro agio, e vado a letto tranquillo».

La 'solita‘ storia

Quando gli chiedo cosa lo spaventa nella vita, abbassa ulteriorme­nte la voce perchÈ non vuole suonare arrogante: «Non mi spaventa niente». Poi si aggiusta meticolosa­mente gli occhiali, e aggiunge: «Semmai, mi rattrista vedere che con la scusa dell’identità stiamo tornando indietro, ai tempi in cui si incolpava il ‘negro’ perchÈ era bruciato il fienile. Stiamo demonizzan­do tutto quello che è diverso da noi». Una cosa che ogni tanto gli capita di vivere anche da semplice frontalier­e: «Negli ultimi anni c’è qualche persona in più che ce l’ha proprio su con noi. D’altronde ci sono anche i frontalier­i che prendono in giro gli svizzeri. Io penso che si debba andare oltre. Che l’uno aiuta l’altro».

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