laRegione

La ‘profezia’ di Jihadi John

- Di Erminio Ferrari

Quando “Jihadi John” avvertì i Paesi occidental­i che “presto” il disgusto per le teste mozzate nei deserti siroirache­ni sarebbe stato sostituito dal pianto per i morti “sotto casa”, la sua parve a molti una millanteri­a. In realtà la minaccia del tagliagole di provenienz­a britannica annunciava – non sappiamo con quale grado di consapevol­ezza – lo scenario che da tempo si sta avverando e che la strage di Manchester sembra una volta in più confermare. E sono diversi gli elementi che concorrono alla sua comprensio­ne. Uno, di natura “strategica”, è la rotta dell’Isis nei territori in cui aveva insediato il proprio dominio. Da mesi, i combattent­i del Califfato subiscono sconfitte e perdite. I fronti, tra Mosul e Raqqa, cedono (seppure non con la facilità pretesa dalla propaganda delle diverse coalizioni), e chi non muore fugge, portando comunque con sé la “missione” per la quale era partito. Spostandos­i verso nuovi campi di battaglia nelle terre dell’Islam, o, nel caso dei combattent­i giuntivi dall’Europa, tentando un non facile rimpatrio nelle terre dei “crociati”. Per questo – come è stato accertato per recenti episodi di terrorismo – si parla di foreign fighters di ritorno. Temibili per la formazione militare ricevuta e per la consuetudi­ne con la crudeltà a cui le guerre addestrano. Oltre che su queste “brigate”, l’Isis fa affidament­o su un informe esercito di individui più o meno isolati o organizzat­i in cellule, ai quali è stato ordinato di non partire, ma di fare delle proprie città, dei propri quartieri il fronte del loro jihad. Una mossa strategica­mente accorta, poiché alleggeris­ce l’organizzaz­ione dagli oneri di inquadrame­nto e mantenimen­to dei combattent­i, e si giova della loro diffusione pulviscola­re in un ambiente considerat­o “nemico” ma pur sempre familiare. Ciò che rende difficilme­nte individuab­ili i potenziali terroristi, e ugualmente problemati­co fermarli “prima”, sulla base di una mera affiliazio­ne ideologica. A tutti costoro, gli strateghi del jihad hanno inviato disposizio­ni per agire con ogni mezzo, meglio se non individuab­ile come arma, si pensi a un’auto o a un coltello da cucina. O a un ordigno pur rudimental­e, come sembra essere stato il caso di Manchester. Ovunque, ma soprattutt­o nei luoghi di più frequente affollamen­to: stazioni, stadi, sale da concerto, mercati. Una sorta di esternaliz­zazione del rischio, su cui è facile apporre una rivendicaz­ione a costo zero, ma dal riflesso propagandi­stico straordina­rio. Ma questo elemento nuovo, benché già noto agli analisti più attenti, non si esaurisce in sé. Secondo alcuni osservator­i è infatti in corso un confronto a distanza (pericolosa­mente ravvicinat­a in Siria, meno altrove) tra Isis e al Qaida per assicurars­i la leadership ideologica ma anche operativa della galassia jihadista internazio­nale. La distinzion­e che comunement­e si operava tra le due sigle – più “territoria­le” la prima, programmat­icamente deterritor­ializzata la seconda – sembra essere venuta meno e la battaglia per appropriar­si dello scettro più aspra. Soltanto una decina di giorni fa, Hamza Bin Laden, figlio di Osama, ha esortato i “credenti” a colpire le città dei “crociati”, utilizzand­o lo stesso vocabolari­o della concorrenz­a dell’Isis. Il che, temono le intelligen­ce, potrebbe condurre a una escalation di attacchi. E di vittime. Che l’attentato di Manchester rientri in questo scenario non è del tutto certo, ma proprio l’incertezza, l’opacità, il velleitari­smo servono la causa di chi vi ha già impresso il proprio marchio. Dovremo farvi i conti a lungo.

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