L’arte proibita della pubblicità
A Ginevra un comitato vorrebbe vietare i cartelloni. L’architetto Blumer: fanno parte di una città
La vera sfida? Sviluppare una capacità critica, afferma il professore all’Accademia di architettura di Mendrisio. Così i divieti sarebbero superflui.
Lo scorso gennaio gli spazi pubblicitari di Ginevra sono rimasti vuoti per alcune settimane. La popolazione si è quindi attivata, trasformandone la gran parte in vere e proprie opere d’arte. Da qui l’idea di un comitato – formato da diversi collettivi di lotta contro il modello economico attuale – di lanciare un’iniziativa popolare a livello comunale, volta a vietare i cartelloni pubblicitari nelle strade della città (cfr. box sotto). ‘LaRegione’ ne ha discusso con Riccardo Blumer, architetto e professore all’Accademia di architettura di Mendrisio.
Architetto, come ‘legge’ questa iniziativa?
Siccome l’immagine fa parte anche del mondo dell’arte, è uno strumento molto potente. Oggi la parte espressiva di un manifesto pubblicitario viene penalizzata da una certa ideologia che si oppone ai prodotti di consumo. L’idea è questa: tutto ciò che rappresenta un prodotto è necessariamente negativo, perché è legato ad un aspetto consumistico della società. Chiaramente, come in tutte le cose, ci sono delle responsabilità legate alla qualità di un prodotto simile, ma un divieto generale – come quello auspicato dai promotori dell’iniziativa lanciata a Ginevra – non risolverebbe la questione. Il commercio fa parte della vita dell’uomo da migliaia di anni. E inoltre ha permesso una crescita culturale incredibile.
Oggi la pubblicità in rete si può bloccare, quella postale si può rifiutare. A Ginevra si invoca il diritto di ‘nonricezione’ per quanto riguarda i cartelloni pubblicitari nello spazio pubblico. È una richiesta giustificata?
Il cartellone pubblicitario è una forma di suggestione. Ma la suggestione attraverso le immagini nella storia dell’uomo c’è sempre stata. Il vero problema sta nella capacità critica di chi osserva. Si vuole quindi togliere lo ‘stimolo’ perché si ha paura di essere incapaci di resistervi o di misurarsi con la suggestione a cui siamo sottoposti. La vera sfida della nostra società, invece, è proprio questa: migliorare la capacità critica rispetto a quello che succede nel mondo. Ciò aiuterebbe anche a sviluppare un pensiero proprio.
Se pensiamo a New York, l’immagine che ci viene in mente è quella di una città sommersa dalle insegne pubblicitarie. La cartellonistica può essere legata all’immagine di una città?
Assolutamente sì. E, diciamoci la verità, molte volte le insegne o i cartelloni pubblicitari sono anche molto belli. Risolvono magari anche dei problemi di città che invece, anche per colpa degli architetti [ride], sono esteticamente brutte. Possono quindi essere un valore aggiunto nella ricerca di un sentimento di bellezza.
L’idea dell’iniziativa è nata quando gli abitanti hanno usato gli spazi pubblicitari rimasti liberi per esprimere la loro creatività. Cosa ne pensa?
È sintomatico che queste cose si creino nel momento dell’eccezione. Quando poi si vorrà istituzionalizzarla, una mobilitazione simile non si verificherà più. Siamo in un’epoca nella quale si pensa di risolvere dei problemi creando delle leggi generali di comportamento pubblico. Ma in realtà è una via difficile da percorrere. Chiaramente le regole sono necessarie, ma dobbiamo essere consapevoli che se le si mettono, creiamo anche l’occasione per infrangerle. Se effettivamente questa legge entrerà in vigore, sarà interessante capire cosa accadrà nella società: si metteranno a disposizione delle zone agli artisti, ma molto spesso questi ultimi non vogliono usufruire degli spazi istituzionali. Questi ultimi erano stati ‘rubati’ a qualcun altro e questo spesso piace molto a persone che seguono una certa ‘morale’. Quindi c’è il rischio che rendendoli istituzionali, gli artisti non li usino e vadano a cercare quelle zone (come fanno i ‘writer’) non istituzionalizzate per loro più attrattive.