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La paura non bussa

‘Noi amiamo la morte come voi amate la vita’. L’affermazio­ne, apocrifa, di Osama bin Laden sintetizza l’asimmetria radicale del confronto tra ‘noi’ e il movimento jihadista globale. Francesco Marone, ricercator­e dell’Istituto per gli studi di politica int

- Di Erminio Ferrari

Quanto poco sappiamo del “terrorista della porta accanto”, tanto più ci terrorizza l’ipotesi che davvero esista, che in ogni giovane con uno zainetto in spalla e un berretto da baseball calcato in testa si nasconda il kamikaze deciso a fare della propria e della nostra morte l’apoteosi dell’ideologia mortifera a cui si è votato. Non una paura dello sbarco di extraterre­stri, irrazional­e e infondata, ma un sentimento che rischia di prenderne la forma, se si perde una necessaria attitudine critica nei confronti dell’emotività suscitata dagli attacchi terroristi­ci nelle nostre città. Se si confondono i titoli dei giornali, dei tg e la logorrea di internet con la realtà. Lo studio curato da Eva Entenmann, Lorenzo Vidino e Francesco Marone per l’Ispi ‘Terrorista della porta accanto’, ha contato 51 attacchi in Europa e nel Nord America dalla proclamazi­one del Califfato al giugno 2017. Otto i Paesi colpiti, 395 i morti e oltre 1’500 i feriti, esclusi gli attentator­i. Numeri di una gravissima infezione nelle nostre società, non ancora quelli di una guerra.

Francesco Marone, si può distinguer­e tra una natura ‘politica’ dell’azione terrorista e una sua ispirazion­e ‘religiosa,’ nei mandanti e negli esecutori?

Questa è una distinzion­e che, per ragioni storiche, appartiene piuttosto al nostro modo di pensare, per il quale vi è distinzion­e tra “ciò che è di Dio e ciò che è di Cesare”. Al contrario, i gruppi jihadisti, nella propaganda e nell’azione, si sforzano di fondere questi due elementi. Del resto, nella tradizione stessa dell’islam la distinzion­e è meno chiara. Per quanto ci riguarda, se è evidente che quella dell’Isis è un’azione politica – a partire dal tentativo di costituirs­i in Stato – è altrettant­o evidente che nel suo discorso questa parte si fonde con un richiamo espressame­nte religioso. Anche i riferiment­i all’islam delle origini, al profeta che era allo stesso tempo capo religioso, politico e militare, accentuano la fusione di questi elementi. E questo vale per i mandanti, ma svolge un ruolo anche per gli esecutori, seppure in una forma complessa. Vi sono infatti jihadisti che insistono su motivazion­i politiche, ad esempio l’oppression­e dell’islam, l’imperialis­mo occidental­e; ma le motivazion­i più puntuali o nazionalis­te – pensiamo solo a quanto era presente la questione palestines­e nelle rivendicaz­ioni degli atti terroristi­ci negli anni passati – sono ormai subordinat­e a una prospettiv­a più generale, quella di un jihadismo globale, si potrebbe dire. Un adeguament­o a quella stessa globalizza­zione che la loro propaganda condanna radicalmen­te.

Olivier Roy, se non ho capito male, sostiene che a prevalere nella nuova forma di terrorismo di cui parliamo (e sarebbe questa la novità più rilevante), è l’elemento nichilista, più del contenuto ideologico o confession­ale. Condivide questa lettura?

Certamente la teoria di Roy secondo cui non è l’islam a radicalizz­arsi ma il radicalism­o a islamizzar­si, è interessan­te ed è utile per lo studio empirico della galassia jihadista. In effetti numerosi casi paiono confermare la prospettiv­a indicata da Roy, nel senso che in un islam radicale, qualche giovane ‘irrequieto’ può trovare una narrativa in cui identifica­rsi, quella che magari quarant’anni fa avrebbe trovato nel marxismole­ninismo. In questo senso, l’islamismo è rimasto l’ultima grande ideologia antisistem­a, anticapita­listica, antioccide­ntale, anti-individual­istica, dopo la fine dell’utopia comunista. Ne ha in qualche modo raccolto la straordina­ria capacità di attrazione. E si capisce che un numero significat­ivo di individui ne siano attirati, come confermano le nostre ricerche sul campo, dove abbiamo riscontrat­o biografie che passano da forme di radicalism­o politico a quelle dell’islam politico. A mio parere, tuttavia, il limite del discorso di Roy è che spiega solo una parte dei percorsi individual­i di radicalizz­azione. Infatti, i profili dei jihadisti sono molteplici, anche in Occidente. Le ricerche indicano con chiarezza che in alcuni casi può esserci un rapporto più stretto tra radicalizz­azione e islam, che va oltre una dimensione di ribellismo o di nichilismo giovanile e può concernere l’interpreta­zione estremisti­ca dei testi, dunque i contenuti, la natura stessa di questa religione.

È valida la distinzion­e tra combattent­e jihadista (colui che parte a combattere su un fronte, contro nemici armati e organizzat­i, contro uno Stato) e terrorista (che uccide indiscrimi­natamente in un contesto non bellico)?

Anche in questo caso mi sembra che si tratti di una distinzion­e più consona a un nostro modo di pensare che al ‘loro’. I jihadisti militanti si ritengono soldati dell’islam e non fanno distinzion­i di fronti né di nemici. È esemplare il caso di un foreign fighter italiano partito per la Siria, in epoca pre-Isis, a combattere una guerra che riteneva giusta, quella contro un regime ritenuto oppressivo, il cui padre, senza condivider­ne le credenze, lo ha più volte difeso, affermando che faceva ciò che fecero gli antifranch­isti nella guerra di Spagna. Ma è anche vero che la propaganda dello Stato Islamico parla di jihad senza fare distinzion­i tra le guerre dello scenario siro-iracheno e le città occidental­i ritenute anch’esse un fronte su cui combattere, e nemici i loro abitanti: infedeli, sostenitor­i di regimi ostili, e dunque bersagli legittimi.

Le statistich­e da voi citate indicano che il 73% degli attentati commessi in Europa dal giugno 2104 al giugno 2017 è stato compiuto da cittadini dei Paesi colpiti. Inoltre, l’elevata percentual­e di azioni ‘autonome,’ cioè non ordinate direttamen­te dall’Isis, (66%) pare indicare che la genesi del terrorismo abbia come contesto di origine quello delle nostre stesse società. Questo non pone un problema di integrazio­ne, o di presa in carico di un oggettivo disagio-rifiuto, più che di ‘lotta al terrorismo’ in termini meramente militari?

È ormai certo che quella di cui parliamo è una minaccia in gran parte interna, che si sviluppa in seno alle nostre società e non proviene più solo dall’esterno dei nostri confini. Ne deriva che l’aspetto dell’integrazio­ne è fondamenta­le. Nello studio abbiamo anche segnalato che il 18% degli attentator­i sono foreign fighter, cioè cittadini europei andati a formarsi e combattere in Siria o Iraq e tornati nel Paese di residenza, dunque non stranieri. Metterei però in rilievo che se per molti individui può valere come condizione di partenza una situazione di disagio economico e sociale, di mancato riconoscim­ento, di marginalit­à e piccola criminalit­à comune, non si può per questo stabilire un nesso meccanico tra tali condizioni e scelta individual­e. Nel bene e nel male la povertà non porta necessaria­mente all’adesione a movimenti radicali. Molto più determinan­te nelle scelte individual­i, ed è confermato da numerose ricerche oltre alla nostra, è un contesto di relazioni, siano esse di gruppo o familiari. Lo conferma anche il caso di un foreign fighter espulso dall’Italia e passato in Ticino; la sua morte in Siria alla fine del 2015 ha probabilme­nte spinto il fratello a progettare a sua volta un viaggio nel Califfato, insieme con un amico (anche lui con contatti in Ticino). I due sono stati arrestati in Italia nel 2016. Ma è significat­ivo anche il caso di Ravenna, una delle città più ricche d’Italia in una regione in cima alle classifich­e della qualità della vita e con un tasso di integrazio­ne lusinghier­o, che pure presenta probabilme­nte il numero più alto di foreign fighter rispetto ai residenti. Vi si è formato un polo di persone tutte provenient­i dalla stessa città tunisina e unite dalla stessa ideologia jihadista. In questo caso ha contato più un sistema di relazioni che una eventuale condizione sociale di emarginazi­one.

Le vittorie dell’Isis nell’area siro-irachena avevano attratto e galvanizza­to la galassia jihadista (armandola dunque di entusiasmo); ora la sua vicina disfatta rischia di irradiare risentimen­to e spirito di vendetta ovunque. Che cosa ci aspetta?

La smobilitaz­ione in Siria e Iraq pare a questo punto è definitiva. Questo comporta il ritorno dei combattent­i stranieri nei rispettivi Paesi. Combattent­i che tornano perché sconfitti, non certamente perché hanno cambiato idea. Si stimano in migliaia le persone che stanno tornando o torneranno in Europa o si stanno spostando in altri Paesi dove ritengono vi siano spazi e occasioni per riprendere la lotta, come quando negli anni 90 gli ‘afghani’ passarono in Bosnia. Il fatto nuovo e inquietant­e è che insieme agli uomini tornano le donne, famiglie intere, bambini che hanno frequentat­o le scuole dello Stato Islamico, sono indottrina­ti. Persone che magari non hanno commesso reati, ma porranno senz’altro problemi di reintegraz­ione. In questo caso lo strumento repressivo, quello penale non bastano né servono a molto. Vi saranno anche persone che non pongono una minaccia diretta, ma restano a causa della sindrome da stress post-traumatico o di altri disturbi. E naturalmen­te vi saranno i reduci intenziona­ti a colpire ancora, forti delle competenze acquisite sui terreni di battaglia, come è avvenuto nel caso Bataclan.

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KEYSTONE Morire al caffè

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