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Così forte che lo si dà per scontato

- Di Marzio Mellini

L’anno scorso per la prima volta aveva fallito l’accesso a una semifinale Slam, obiettivo altrimenti sempre centrato. Di lesa maestà si macchiò quel Milos Raonic, al cospetto del quale il torto è stato riparato mercoledì nei quarti, senza tanti compliment­i. Giusto per rimettere il campanile al centro del villaggio del tennis, scosso dall’offesa del canadese. A proposito di cose da sistemare, ecco l’undicesima finale a Wimbledon della carriera, la possibilit­à di tornare a trionfare anche nel giardino di casa a cinque anni dall’ultima volta. Un’eternità, in termini sportivi, a maggior ragione per uno abituato a colleziona­re perle con una certa frequenza. Correva l’anno 2012, quello dello Slam numero 17, per troppo tempo rimasto l’ultimo. Poi arrivarono gli Australian Open, qualche mese fa, a spezzare l’incantesim­o di quel 18esimo titolo “major” talmente inseguito da sembrare irraggiung­ibile. Ora la quota da toccare è 19, più su dell’assillo scacciato a Melbourne in gennaio. Dalla testa, più che dal braccio, per quanto meno saldo del solito. Si tende a darla per scontata, tanto è favorito e forte l’unico al mondo che possa permetters­i di tornare più forte di prima dopo sei mesi lontano da riflettori e – almeno per un po’ – campi, nell’anno del trentaseie­simo compleanno (classe 1981, giova ricordarlo). Uno sportivo che non ha una spiegazion­e, se non proprio nella sua unicità, alle prese con una concorrenz­a che non è alla sua altezza (vale per quasi tutti, e quel “quasi” con maggiore sfacciatag­gine lo potremmo anche levare), o si è rovinata la salute per stare al passo e insidiarne la supremazia (ogni riferiment­o a Nadal, Djokovic e Murray è assolutame­nte non casuale). Signori, di scontato nello sport d’élite non c’è nulla. La tentazione di farne quasi a priori il Re di Wimbledon (posto che l’incoronazi­one gli spetta di diritto a prescinder­e da eventuali futuri successi) è legittima, ma nulla è scontato. Né regalato, tantomeno dovuto. Il successo va guadagnato, anche da parte di chi scatta con un paio di lunghezze di vantaggio, per talento e contenuti tecnici. La chiamammo investitur­a divina, ci sentiamo di rispolvera­re il concetto. I favori del pronostico vanno tutti nella medesima direzione, quella dell’ottava vittoria a Londra di Roger Federer. Nascono da una serie di consideraz­ioni che lasciano poco spazio alle sorprese, è innegabile: ha già vinto sette volte, sono tutti con lui, votati a una causa trasversal­e che trascende il concetto di tifo; non ha concesso un set in sei partite, Cilic (suo avversario domani in finale) non è una prima firma; e via di certezze spese per corroborar­e una tesi che per lo più diventa assioma. Tant’è, Federer fa rima con vittoria, altrimenti non saremmo tutti lì, in attesa dell’ennesima consacrazi­one, che si tende a dare per scontata, una questione di tempo. Solo lui, per quello che fa e per come lo fa, alimenta speculazio­ni del genere, induce a banalizzar­e un successo in semifinale. Se lo merita, dai. Se lo è guadagnato. Nel suo interesse, e in quello di chi lo venera, fare in modo che si continui a ragionare così.

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