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Contro l’ordine dei padri

Al Festival Territori il racconto della rivolta di un gruppo di suore del 16esimo secolo Lo spazio di un monastero come baluardo di libero pensiero e contestazi­one, il pensiero femminile come alternativ­a sociale. Una storia realmente accaduta, che ci parl

- di Clara Storti

“Ego, soror Christi promitto stabilitat­em mea”. Ovvero, non penso, non rifletto, non contesto l’ordine stabilito da altri per me. Rinuncio alla mia libertà. Forse è una parafrasi, fra virgolette, un po’ troppo pretestuos­a. “Si sa, l’abitudine ci fa accettare l’inaccettab­ile. Accade spesso di sottomette­rci volontaria­mente a una forma d’imposizion­e, quando non abbiamo avuto la possibilit­à di conoscere altro e tutta la formazione che riceviamo fin da bambine ci spinge ad accettare naturalmen­te un modello femminile non desiderato perché finiamo per crederlo nostro”. Questa seconda battuta, in particolar­e, appare molto significat­iva, una chiave di lettura per comprender­e tutta la narrazione della pièce ‘La semplicità ingannata’, della regista e attrice goriziana Marta Cuscunà, andata in scena giovedì nell’ambito di Territori. La cultura come mezzo d’emancipazi­one femminile; la forza delle idee femminili per costruire un’alternativ­a sociale; la forza dell’unione muliebre capace di costruire positivame­nte; il diritto alla libertà di decidere della propria vita… Sono solo alcuni dei temi di riflession­e messi dall’autrice sulla scena.

Il pericolo in una femmina

Marta Cuscunà porta a teatro una satira per attrice e pupazze sul lusso d’esser donna, trattando i temi di cui sopra, rappresent­ando la rivolta delle clarisse del Monastero di Santa Chiara di Udine, nella prima metà del XVI secolo. L’edificio monastico divenne baluardo di libero pensiero e spazio di contestazi­one, impensabil­e per l’epoca in cui avvenne. Lo spettacolo è godibiliss­imo, comico e profondo, basato su una drammaturg­ia ben scritta. È lampante la solidità della ricerca, ben affrontata e preparata, che ha permesso a Cuscunà di scrivere una pièce che conquista l’attenzione, ispirandos­i alle opere letterarie di Giovanna Paolin e Arcangela Tarabotti.

La scena spoglia, occupata solo dal brutto ceffo di un pupazzo raffiguran­te un alto chierico arcigno, da una parte e, dall’altra, un banco su cui stanno appollaiat­e sei pupazze raffiguran­ti le sei suore ribelli. Personaggi che accompagna­no l’attrice che – con gesti e voci dai toni diversi per caratteriz­zare, anche psicologic­amente, i differenti personaggi – racconta la storia della loro rivolta. Lo spettacolo, diviso in due libri, racconta nel primo (l’attrice è sola sulla scena e monologa) come le figlie femmine erano gestite dai padri: date in spose comprando i mariti con doti il più possibile al ribasso, quando c’erano ancora le circostanz­e di estetica, docilità di carattere e moralità ineccepibi­le. Ma quando non c’erano queste condizioni? Quando le figlie non erano collocabil­i perché in età avanzata, bellezza sfiorita o bruttezza e temperamen­ti tumultuosi difficili da gestire? Le alternativ­e dei padri erano due, una delle quali forzare le figlie all’ordinazion­e monacale. L’attrice narra così il cammino verso l’ordinazion­e, partendo dallo statuto di educanda e novizia (periodi piuttosto liberi, in cui le giovani potevano sperimenta­re), fino all’ordinazion­e con l’abito monacale e la segregazio­ne in convento. Il secondo libro tratta della vita all’interno del convento di clausura e la progressiv­a presa di coscienza della condizione di privazione della libertà e quindi di reclusione in quanto monache. Con l’aiuto delle pupazze, Marta racconta di questo nugolo di suore in contestazi­one con il loro passato e il loro presente. Le suore rinchiuse iniziano a riflettere sulla loro condizione e avviano così una rivolta nel monastero, in aperta rottura con i dogmi religiosi, figli di una mentalità e di una cultura basate sul patriarcat­o. Le consorelle diventano libere pensatrici, progressis­te e fanno di quel luogo di segregazio­ne, chiusura e oscurantis­mo, uno spazio di contestazi­one e libero pensiero, grazie alla cultura che vi fiorisce. Fino all’accusa di eresia; fino al tribunale della Santa Inquisizio­ne che, seppur dichiari l’innocenza delle suore ribelli (che con arguzia basano la loro arringa difensiva sui luoghi comuni attribuiti alle donne: scarse capacità riflessive, incapacità a organizzar­si, debolezza…), alla fine riesce a dividerle: separandol­e, l’aristocraz­ia clericale scardina quella piccola rivoluzion­e sociale e di genere, perché, si sa, uno dei punti di forza delle donne è la solidariet­à e l’unione. Pare proprio che: “Le idee femminili sono pericolose. E vanno fermate”.

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Marta Cuscunà

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