I salvataggi continuano
Roma – Il Ministero dell’interno ha un bel vantare il drastico calo degli sbarchi sulle coste italiane, ma questo non significa che i migranti abbiano smesso di prendere il mare. Sono ancora molti, infatti, a tentare la traversata del Canale di Sicilia dalla Libia, affrontando un rischio tanto più elevato da quando molte Ong – quelle che hanno rifiutato di aderire al “codice di condotta” redatto dal governo di Roma – hanno deciso di trattenere le proprie navi in porto. Non tutte, comunque: «Noi continuiamo a salvare vite», ha detto ieri all’Ansa Regina Catrambone, cofondatrice del Moas, da tre anni attiva in mare con la nave Phoenix e tra le prime Ong ad aver firmato il codice. «Siamo partiti per colmare lo spazio che si era aperto tra le istituzioni e la società civile dopo la fine dell’operazione Mare Nostrum e continuiamo a stare in mare – ha detto Catrambone. – Non giudichiamo le altre Ong: ognuno ha il proprio modus operandi, ma se le persone continuano a partire moriranno, quindi c’è bisogno di noi. Seguiamo la legge del mare, altrimenti è omissione di soccorso». Come è accaduto martedì, quando la Phoenix ha recuperato 111 migranti su un gommone in acque internazionali ed in seguito li ha trasbordati sul mezzo di un’altra Ong, «su indicazione del centro di coordinamento della Guardia costiera italiana», ha precisato. E questa è solo una parte del problema. L’altra è la sua gestione da parte della Libia, con le cui autorità il rapporto delle Ong è quantomeno conflittuale. A questo proposito, la Guardia costiera libica ha sostenuto ieri di non avere dichiarato alcuna zona proibita, né di avere “impedito ad entità o organizzazioni di effettuare operazioni di ricerca e salvataggio chiare e trasparenti. Chiediamo l’intensificazione degli sforzi, del coordinamento e della cooperazione con lo Stato libico e le sue istituzioni”. E questo sì è il problema: quali istituzioni?