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Trump People

- Di Erminio Ferrari

Credeva che suo figlio stesse partecipan­do a un raduno di sostenitor­i di Donald Trump. Dunque erano due le cose che non sapeva la madre di James Alex Fields, il ventenne che ha falciato con la propria auto i manifestan­ti antirazzis­ti a Charlottes­ville: uno, ignorava dove si trovasse suo figlio; due, non sapeva di avere ingenuamen­te svelato una verità che Trump medesimo ha tentato maldestram­ente di camuffare. “Quelli” erano davvero gente sua, emuli e parenti stretti dei suprematis­ti che ha portato con sé (e che tanto hanno contribuit­o a portare lui) alla Casa Bianca. A dieci mesi dalla sua elezione, le spiegazion­i secondo le quali l’incetta di voti che lo hanno intronizza­to originava dal profondo della crisi ed esprimeva il risentimen­to di intere classi impoverite, le abbiamo ormai capite, e comunque si sono rivelate inadeguate per comprender­e del tutto che cosa si sia prodotto in America. Anzi, se ci si ferma ad esse si è già in ritardo, perché la storia non si arresta in attesa che la capiamo. E se non apparisse forzata l’analogia, potremmo ricordare che mentre si dissertava sulle ragioni della loro ascesa, i fascismi consolidav­ano il proprio potere in Europa meno di un secolo fa. In questo senso, la gestione caotica dell’amministra­zione e il bric-à-brac della comunicazi­one presidenzi­ale (ultima la sequenza di reticente condanna, precisazio­ni, autorettif­iche a proposito di Charlottes­ville) sono anch’essi una sola parte del problema. Perché dell’elezione di Trump – per le condizioni in cui è avvenuta e per le conseguenz­e che si manifestan­o – è soprattutt­o necessario non ignorare il contenuto di “rivincita dell’uomo bianco”, che la condotta del presidente e i fatti di Charlottes­ville (ma anche lo stillicidi­o di episodi analoghi, seppure meno cruenti, che li hanno preceduti) confermano in maniera tragica e grottesca, rispecchia­ndo e inducendo condizioni, eventi il cui “segno” non si cancellerà molto a lungo. L’estrema destra (nelle cui fila si contano anche molte “persone per bene”, secondo Trump) che si è radunata nella città della Virginia non lo ha fatto per rivendicar­e lavoro o equità sociale, ma per affermare un primato, quello razziale, che reputa insidiato ai discendent­i dei “fondatori” da “ebrei-comunistin­egri” (si veda il documentar­io ‘Charlottes­ville: Race and Terror’, firmato da una coraggiosa giornalist­a di Vice News Today, per averne un esemplare resoconto). E neppure estemporan­ea era l’occasione che ha radunato nazisti e suprematis­ti: la “difesa“della statua del generale sudista Robert E. Lee (insieme alle centinaia d’altre nel Sud degli States), minacciata di rimozione dagli antirazzis­ti. Quei monumenti non sono infatti una testimonia­nza della guerra civile (una sorta di onore delle armi reso ai vinti, come si pretende), ma furono eretti in un’epoca ben posteriore: negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, quelli della rinascita del Ku Klux Klan, dei neri linciati e appesi agli alberi (“Strange fruits”, se qualcuno ricorda Billie Holiday). E la perfetta malafede del presidente è stata espressa da lui stesso quando ha deliberata­mente confuso le date e le carte, chiedendo se dopo Lee sarebbe toccato a George Washington, giacché anche il padre della patria possedeva schiavi. Ecco: ai leader suprematis­ti che davanti alle telecamere ripetevano, riferendos­i a Trump, “noi l’abbiamo eletto, ora ci ascolti” (compreso il Bannon licenziato di fresco), andrebbe detto che loro dovrebbero piuttosto ascoltare il presidente. Si renderebbe­ro conto che lui è già un po’ più avanti.

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