Gli innominati del lavoro
Volevamo frontalieri e sono arrivati uomini (e donne). Persone in carne ed ossa che giornalmente entrano ed escono come carovane di formiche; scendono alle prime luci dell’alba dalle loro vallate lombarde e piemontesi per incolonnarsi sulle strade che portano ai valichi di frontiera. Gli ultimi dati hanno di nuovo fatto notizia: 65’490 unità registrate a fine giugno 2017. Numeri che hanno destato allarme nell’opinione pubblica e sollevato interrogativi: la tendenza proseguirà? In quali settori produttivi s’inseriscono i nuovi venuti, con quali mansioni e livelli retributivi?
Segue dalla Prima E quanti impieghi sottraggono agli autoctoni? Per alcuni, l’incremento testimonia che la macchina economica scoppia di salute; per altri, invece, segnala una progressiva penetrazione in rami in cui anche i disoccupati locali potrebbero trovare un’occupazione. E si pensa soprattutto all’ambito dei servizi, alle attività cosiddette ‘cognitive’, in cui conta soprattutto il grado formativo, la conoscenza delle lingue, l’alta specializzazione. Non solo edilizia, insomma; non solo fabbriche, ristoranti, alberghi, cliniche, ma scuole, fiduciarie, banche, studi di architettura e di ingegneria, università, media cartacei ed elettronici. Nelle prossime settimane, gli statistici ci diranno come si distribuisce la nuova manodopera nello spettro delle varie attività. Avremo di nuovo cifre, percentuali, diagrammi, tutte informazioni utili a comprendere questo intricato fenomeno, dalle dimensioni mai viste prima nella storia del canton Ticino. Un afflusso i cui risvolti politici hanno pesantemente condizionato le scelte dell’elettorato ticinese negli ultimi decenni, soprattutto dall’inizio degli anni 80 in poi. Ma, oltre all’aspetto quantitativo, c’è anche un’altra sfera, solitamente poco considerata, per non dire taciuta. Ci riferiamo ai licenziamenti e agli infortuni sul lavoro. Quasi sempre sono i frontalieri le principali vittime di ristrutturazioni e chiusure di stabilimenti, spesso situati a ridosso del confine; sono frontalieri tanti morti sui cantieri, operai caduti dall’impalcatura, schiacciati, o inghiottiti da qualche ingranaggio. L’ultimo caso si è verificato a Manno, un lattoniere proveniente dalla provincia di Como precipitato dal tetto di un capannone. Spesso ci siamo chiesti: come sarebbe questo cantone, non solo da un punto di vista economico, ma anche sociale e politico, se improvvisamente questo esercito di braccia e menti venisse a mancare lasciando vuoti che gli indigeni dovrebbero colmare; se il Ticino dovesse assorbire da un giorno all’altro le maestranze licenziate in blocco (ben 60 a Stabio a seguito del fallimento della General Mast Engineering); se questi pendolari potessero esprimere il loro parere attraverso una qualche forma di partecipazione davvero incisiva. Probabilmente il volto ‘sociale’ del paese sarebbe diverso, meno indifferente alla causa dei lavoratori. Indifferenza che si percepisce anche nei resoconti della cronaca giornalistica. Pure qui domina l’anonimato della fredda contabilità funebre. ‘Morto l’operaio, deceduto il lattoniere comasco’. Sappiamo l’età (58 anni), ma non il nome. Una delle tante vittime del lavoro che tutti noi dimenticheremo presto. Nessun novello Vincenzo Vela gli dedicherà un monumento, fosse solo di cartapesta. L’operaio morto era di Dongo, si chiamava Renzo De Maddalena, lascia moglie e un figlio. Gli si dia almeno un’identità.