Bastasse un punto di Pil...
“Checché ne dica la Lega, il Ticino va bene”. Era il titolo d’apertura de ‘le Temps‘ di lunedì scorso, edizione cartacea, che sovrastava un articolo sulla situazione economica del cantone più a sud della Svizzera. L’approccio già s’intuiva nelle prime righe: il cantone italofono che aspira a tornare in Consiglio federale va meglio di quanto si è portati a pensare. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo, per non contrastare il pensiero dominante governato dalla Lega. A supporto della tesi, seguivano i dati del Prodotto interno lordo (Pil) cantonale per abitante superiore alla media svizzera, il contenuto tasso di disoccupazione (dati Seco), l’aumento dei pernottamenti e dunque del flusso turistico, pur ammettendo un salario mediano inferiore del 15-20 per cento. Su tutto, le buone prospettive future date dall’apertura di AlpTransit e il conseguente avvicinamento del Ticino a Zurigo. Sorvolando sulla tempistica sospetta del quotidiano ginevrino (a un mese dalla sostituzione di Didier Burkhalter in Consiglio federale che vede in lizza anche il ginevrino Maudet, oltre al favorito Cassis), l’articolo de ‘le Temps’ si presta – inconsapevolmente? – a riproporre una visione manichea che tanto piace ai media (perché alimenta le tifoserie), ma poco aiuta a comprendere davvero il ‘caso Ticino’ che, ne siamo sempre più convinti, se non affrontato per tempo rischia di contagiare l’intera Confederazione, minoranza tanto originale quanto sempre più marginale nei processi di mondializzazione. Poco servono, dunque, i pompieri e gli incendiari. Ma se i primi intervengono in buona fede, convinti che così si spenga il “fuoco populista”, i secondi hanno tutto da guadagnare ad appiccare qua e là nuovi incendi per tenere alta la paura e la tensione. Cosa significa muoversi fra “primanostristi” e “ottimisti”? In primo luogo vuol dire raccontare tutta la realtà e non solo una parte. Certo, la crescita economica ticinese è sotto gli occhi di tutti, ma lo è altrettanto – basta leggere gli studi Ustat – l’espansione della sottoccupazione sorretta dal “lavoro atipico”, così lo si definiva quand’era marginale, vale a dire con un’ampia flessibilità oraria e salariale, senza sicurezza alcuna. Con un’aggravante. Il fenomeno è globale ma in Ticino ancora più acuto per la forte differenza economico-occupazionale con la confinante Italia. E il problema, chiamiamolo così, questa volta non è congiunturale (dettato dal pendolo della frontiera che avvantaggiava ora questo ora quello), ma strutturale; non cambierà in poco tempo. La maggioranza dei ticinesi non sa definire il proprio malessere, non riesce a dargli un nome. Il valtellinese Aldo Bonomi nove anni fa l’ha chiamato “spaesamento” e ci ha scritto un libro. Spaesati per la perdita dei riferimenti tradizionali e rassicuranti, stressati dai mutamenti intervenuti nella produzione capitalistica, refrattari al confronto con la modernità, attaccati con le unghie alla propria presunta identità. È un mutamento profondo, drastico, quello che sta coinvolgendo il Canton Ticino da almeno quindici anni che lede i pilastri del federalismo elvetico, basati su ben altri presupposti come il dialogo, l’integrazione, la tolleranza, la fiducia. Per stoppare la tendenza ticinese serve un’ampia e acuta considerazione da tutto il Paese, capace di andare oltre la superficie e le apparenze. Ecco perché crediamo sia oggi più utile all’intera Confederazione che non al Ticino, eleggere in Consiglio federale uno svizzero-italiano che, proprio perché tale, sa leggere l’atipicità di questa frontiera sempre più avanguardia di un mondo che genera spaesamento. Anche, ne siamo convinti, a chi abita e lavora a Ginevra.