laRegione

La sua cultura umanistica con risolutezz­a e coerenza

- Di Silvano Toppi

Libertà, giustizia (anche con la G maiuscola, istituzion­ale), solidariet­à, beni comuni (come acqua, territorio), servizio pubblico (come Aet, Banca dello Stato, trasporti), letture, umanesimo: erano i termini che più ricorrevan­o nei miei lunghi colloqui con Sergio Salvioni. Dapprima, per la stesura di un libro su un periodo di “Malagestio­ne” (è il titolo della pubblicazi­one) dell’Aet: erano anche momenti di sofferenza e di accesi interventi da parte dell’ex presidente di quell’azienda pubblica. Poi, perché ero personalme­nte convinto che la storia “politica” di Sergio Salvioni dovesse essere raccontata in una lunga intervista. Ciò che avvenne, in maniera discorsiva, aperta, molto sincera, approvata. Poi, forse per alcuni suoi scrupoli o per un eccesso di modestia, rimase sempre nella promessa di qualche revisione o completame­nto. Solo una parte venne pubblicata, con commento, nell’Archivio storico ticinese, quando l’ambasciato­re filippino a Berna gli conferì l’11 febbraio 2014 la Presidenti­al Medal of Merit, la massima onorificen­za del suo paese, “per il fondamenta­le contributo nel ricupero di 684 milioni di dollari”, gli illeciti depositi in Svizzera della famiglia Marcos (v. Ast 155). Quelle parole, non tutte, sono spesso sulla bocca dei politici: fanno parte del loro arredo. In Salvioni constatavo però, già da giornalist­a che lo seguiva ormai da anni nell’attività politica ed economica cantonale e nazionale, che non erano solo arredo: erano iniziative e progetti (alle volte anche avvenirist­ici, come nei trasporti), obiettivi politici precisi e determinat­i (come nella strenua promozione e difesa del bene comune e del servizio pubblico), perseguime­nto della giustizia a rischio anche dell’impopolari­tà o del boicottagg­io delle grandi banche (come nel caso del reperiment­o dei fondi illeciti filippini o della critica, incredibil­mente preveggent­e, nientemeno che al Nazionale, sulla insufficie­nte sorveglian­za sul settore bancario e sulle conseguenz­e che poteva comportare), erano pure denuncia di mancanza di visioni più ampie, più coraggiose e costruttiv­e e meno lagnose nel Ticino, anche nel suo partito. Di un politico si tralascia spesso quelli che possono essere gli elementi fondanti della sua formazione: eppure è lì che si trova spesso il meglio del dopo. Nel racconto della sua gioventù e quindi anche del periodo della sua formazione mi avevano impression­ato alcuni fatti perché indicavano risolutezz­a e coerenza, che l’hanno sempre accompagna­to, e desideri rimasti tali con una sorta di incompiute­zza nostalgica, che ne hanno forgiato la sua cultura umanistica e la sete di libri. Non può più essere cattolico (la madre, un’Antognini, era cattolicis­sima e lo portava a messa), chiede alla Curia di essere sbattezzat­o, poiché non può più tollerare le contraddiz­ioni tra l’insegnamen­to di Cristo e i comportame­nti della Chiesa. Studente liceale è ferocement­e antifascis­ta e si mette in combutta con il padre, piuttosto filofascis­ta. Studente universita­rio in diritto a Berna sogna la carriera accademica, ma un arrogante professore di diritto romano, all’esame finale, sostenendo che gli ha dato una risposta imperfetta, gli nega la “summa cum laude”: sale di furia nella biblioteca universita­ria, prende il testo del Bonfante, ritorna dal professore e gli dimostra che la sua risposta era corretta (si trattava dell’“actio mandati contrari”). Niente da fare, irremovibi­le il professore. Abbiamo così perso un accademico, guadagnato un politico. O forse abbiamo perso anche un letterato, come il famoso prozio Carlo: amava infatti ricordare le stupende lezioni del Contini ospite dell’amico Giorgio Orelli nei dintorni di Prato Leventina, “all’ombra di un noccioleto”. Nella sua formazione Sergio Salvioni amava però anche ricordare sia la sua permanenza nella Roma del dopo-liberazion­e e la frequentaz­ione di quella eccelsa fucina di idee ch’era la redazione de “il Mondo” di Mario Pannunzio e di Ernesto Rossi (l’autore di “Elettricit­à senza baroni”!), sia anche la presenza nella tipografia paterna, dove era approdato “Il Dovere”, per il contatto umano con i tipografi (il mitico Marzio Brenna che gli insegnava tutto) e l’autorevole direttore Plinio Verda, che pubblicò il primo articolo polemico (contro don Leber) del diciottenn­e Sergio. In altra parte si ricorderà l’importanza dell’attività politica di Sergio Salvioni. In una visione forse più personale, dovuta ai nostri vari colloqui che andavano oltre l’intervista che poteva essere fattore frenante, ne ricorderei parte di quella che a me sembra più significat­iva e forse “più amata” dallo stesso Salvioni. Segue a pagina 21

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