La rivoluzione popolare
L’Aargauer Kunsthaus dedica un’ampia mostra alla ricezione in Svizzera della Pop Art
Il forte e fecondo impulso della Pop sull’arte svizzera in mostra ad Aarau fino al primo ottobre
La Pop Art fu un’improvvisa ventata d’aria e di novità che entrò a scombussolare le consuetudini artistiche tanto negli Stati Uniti d’America quanto in Europa, a cominciare dall’Inghilterra. Sbarcata alla Biennale di Venezia del ’64, fece subito un gran clamore tanta era la carica dirompente e scioccante della sua poetica e delle opere esposte. Dopo tanta arte astratta, dopo lo psicologismo sofferto dell’Action Painting, dopo l’intellettualismo dell’arte minimale e concettuale, dopo tanto tendere alla purezza trascendente delle forme e del pensiero, ecco di colpo ritornare in campo la corporeità nuda e cruda delle cose, la banalità irremovibile e inalienabile del quotidiano: lattine, minestre, bottiglie di coca, dollari, fumetti e rotocalchi, divi del cinema o televisivi... realtà e simboli, ad un tempo, della crescente società di massa. Non solo quella di quegli anni, ma l’intera storia dell’arte con le sue idealità ed i suoi valori, tutto sembrava di colpo azzerato e ci si ritrovava ai piedi della scala, si tornava al grado zero, al punto di partenza. Non senza una forte dose di provocazione, la Pop proponeva infatti oggetti e immagini del mondo del consumo e del commercio, dell’industria, dei mass media da sempre considerati senza valore e non degni di appartenere al mondo nobile dell’arte. E li proponeva non solo nel modo più ostentato e impersonale possibile, ma anche ambiguo: era condanna o adesione? O nessuno dei due, puro adeguamento a come stanno le cose? Ragion per cui le cose son quel che sono e nulla più. Era evidente, insomma, che quei giovanotti non erano degli sprovveduti, sorretti per di più da abilissimi critici e galleristi; anche il loro ritorno alla “verità” delle cose non era affatto un ritorno al realismo: c’è un abisso tra come Andy Warhol rappresenta un barattolo di Campbell’s soup, e una raffigurazione realistica ed ambientata dello stesso oggetto. Se in apparenza si tornava indietro, in realtà era per spostarsi in avanti o a lato: vuoi rispetto ai contemporanei, vuoi rispetto alla tradizione. Uno spostarsi o reinventarsi tanto nei temi e nei motivi, quanto nello stile: impersonale, tinte a piatto, colori pastello non di rado slabbrati e sovrapposti, composizioni spezzate. A colpire, della Pop, oltre ai soggetti, era anche la novità del linguaggio, non di rado assimilabile a quello della grafica e della pubblicità, per cui si operava una sorta di interscambio tra linguaggio dell’arte e linguaggio dei rotocalchi, si assottigliava lo spazio tra arte colta e arte popolare, tra arte di pensiero (o di provocazione) e immagine di consumo o di effetto. Che effetto ebbe tutto questo sull’arte svizzera tra gli anni 60 e 70? L’impatto fu tale che è difficile trovare qualcuno, specie tra i più giovani artisti, che non vi si sia confrontato. Il Kunsthaus di Aarau, nel Canton Argovia, ha inteso rispondere a questa domanda allestendo una ricca mostra, con alle spalle anni di ricerca, titolata Pop art svizzera. Si tratta del primo ampio studio sugli influssi della Pop non solo sull’arte, ma anche sulla musica, la pubblicità, la moda, la fotografia ecc., il tutto tramite una rassegna con ben 250 opere organizzate per nuclei tematici. Ne esce un’immagine caleidoscopica e variata ma che, innegabilmente, dimostra come sia stato forte e fecondo l’impulso della Pop sull’arte svizzera di quegli anni, nonostante la sua breve durata: un tuffo rigeneratore che si concluse nei primi anni 70 quando il clima socio-politico cambiò e iniziò la grande crisi petrolifera del 1973 che mise fine agli anni del boom.
I magnifici 4 ticinesi
Sono quattro gli artisti ticinesi selezionati e presenti in mostra con un loro spazio rappresentativo, ma avrebbero potuto essere anche di più. Si tratta di Livio Bernasconi, Fernando Bordoni – il più genuinamente pop dei 4 –, Renzo Ferrari e Flavio Paolucci. Con il senno di poi è interessante notare come tutti loro, che percorsero poi strade differenziate, abbiano avuto negli anni Sessanta un momentaneo punto di incrocio o di affinità abbeverandosi – ciascuno in situazioni e con modalità proprie – alla fonte della Pop: Bernasconi approdando negli Stati Uniti, incrociando i linguaggi e ispirandosi alle insegne pubblicitarie; Bordoni trasferendosi a Londra e ispirandosi soprattutto al tema della donna-macchina impaginata con tagli grafici; Renzo Ferrari operando a Milano e lavorando sul rapporto tra naturale e artificiale o meccanico; Paolucci recuperando il collage con cui combinare le più disparate immagini e creare messaggi dai sottili rimandi socio-politici.