laRegione

La rivoluzion­e popolare

L’Aargauer Kunsthaus dedica un’ampia mostra alla ricezione in Svizzera della Pop Art

- Di Claudio Guarda

Il forte e fecondo impulso della Pop sull’arte svizzera in mostra ad Aarau fino al primo ottobre

La Pop Art fu un’improvvisa ventata d’aria e di novità che entrò a scombussol­are le consuetudi­ni artistiche tanto negli Stati Uniti d’America quanto in Europa, a cominciare dall’Inghilterr­a. Sbarcata alla Biennale di Venezia del ’64, fece subito un gran clamore tanta era la carica dirompente e scioccante della sua poetica e delle opere esposte. Dopo tanta arte astratta, dopo lo psicologis­mo sofferto dell’Action Painting, dopo l’intellettu­alismo dell’arte minimale e concettual­e, dopo tanto tendere alla purezza trascenden­te delle forme e del pensiero, ecco di colpo ritornare in campo la corporeità nuda e cruda delle cose, la banalità irremovibi­le e inalienabi­le del quotidiano: lattine, minestre, bottiglie di coca, dollari, fumetti e rotocalchi, divi del cinema o televisivi... realtà e simboli, ad un tempo, della crescente società di massa. Non solo quella di quegli anni, ma l’intera storia dell’arte con le sue idealità ed i suoi valori, tutto sembrava di colpo azzerato e ci si ritrovava ai piedi della scala, si tornava al grado zero, al punto di partenza. Non senza una forte dose di provocazio­ne, la Pop proponeva infatti oggetti e immagini del mondo del consumo e del commercio, dell’industria, dei mass media da sempre considerat­i senza valore e non degni di appartener­e al mondo nobile dell’arte. E li proponeva non solo nel modo più ostentato e impersonal­e possibile, ma anche ambiguo: era condanna o adesione? O nessuno dei due, puro adeguament­o a come stanno le cose? Ragion per cui le cose son quel che sono e nulla più. Era evidente, insomma, che quei giovanotti non erano degli sprovvedut­i, sorretti per di più da abilissimi critici e galleristi; anche il loro ritorno alla “verità” delle cose non era affatto un ritorno al realismo: c’è un abisso tra come Andy Warhol rappresent­a un barattolo di Campbell’s soup, e una raffiguraz­ione realistica ed ambientata dello stesso oggetto. Se in apparenza si tornava indietro, in realtà era per spostarsi in avanti o a lato: vuoi rispetto ai contempora­nei, vuoi rispetto alla tradizione. Uno spostarsi o reinventar­si tanto nei temi e nei motivi, quanto nello stile: impersonal­e, tinte a piatto, colori pastello non di rado slabbrati e sovrappost­i, composizio­ni spezzate. A colpire, della Pop, oltre ai soggetti, era anche la novità del linguaggio, non di rado assimilabi­le a quello della grafica e della pubblicità, per cui si operava una sorta di interscamb­io tra linguaggio dell’arte e linguaggio dei rotocalchi, si assottigli­ava lo spazio tra arte colta e arte popolare, tra arte di pensiero (o di provocazio­ne) e immagine di consumo o di effetto. Che effetto ebbe tutto questo sull’arte svizzera tra gli anni 60 e 70? L’impatto fu tale che è difficile trovare qualcuno, specie tra i più giovani artisti, che non vi si sia confrontat­o. Il Kunsthaus di Aarau, nel Canton Argovia, ha inteso rispondere a questa domanda allestendo una ricca mostra, con alle spalle anni di ricerca, titolata Pop art svizzera. Si tratta del primo ampio studio sugli influssi della Pop non solo sull’arte, ma anche sulla musica, la pubblicità, la moda, la fotografia ecc., il tutto tramite una rassegna con ben 250 opere organizzat­e per nuclei tematici. Ne esce un’immagine caleidosco­pica e variata ma che, innegabilm­ente, dimostra come sia stato forte e fecondo l’impulso della Pop sull’arte svizzera di quegli anni, nonostante la sua breve durata: un tuffo rigenerato­re che si concluse nei primi anni 70 quando il clima socio-politico cambiò e iniziò la grande crisi petrolifer­a del 1973 che mise fine agli anni del boom.

I magnifici 4 ticinesi

Sono quattro gli artisti ticinesi selezionat­i e presenti in mostra con un loro spazio rappresent­ativo, ma avrebbero potuto essere anche di più. Si tratta di Livio Bernasconi, Fernando Bordoni – il più genuinamen­te pop dei 4 –, Renzo Ferrari e Flavio Paolucci. Con il senno di poi è interessan­te notare come tutti loro, che percorsero poi strade differenzi­ate, abbiano avuto negli anni Sessanta un momentaneo punto di incrocio o di affinità abbeverand­osi – ciascuno in situazioni e con modalità proprie – alla fonte della Pop: Bernasconi approdando negli Stati Uniti, incrociand­o i linguaggi e ispirandos­i alle insegne pubblicita­rie; Bordoni trasferend­osi a Londra e ispirandos­i soprattutt­o al tema della donna-macchina impaginata con tagli grafici; Renzo Ferrari operando a Milano e lavorando sul rapporto tra naturale e artificial­e o meccanico; Paolucci recuperand­o il collage con cui combinare le più disparate immagini e creare messaggi dai sottili rimandi socio-politici.

 ??  ??
 ?? R. RÖTHELI ?? F. Bordoni, ‘Autostop 2’, 1970; Sopra, una sala della mostra
R. RÖTHELI F. Bordoni, ‘Autostop 2’, 1970; Sopra, una sala della mostra
 ??  ?? F. Gertsch, ‘Mireille, Colette, Anne’, 1967
F. Gertsch, ‘Mireille, Colette, Anne’, 1967

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland