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Uno specchio del Novecento

- Di Enrico Colombo

La grande Orchestra della Festival Academy diretta da Matthias Pintscher era sul palco del Konzertsaa­l al completo per la prima esecuzione svizzera integrale di ‘Spiegel I-VII’, opera composta negli anni 1960/61 da Friedrich Cerha, 85 minuti di musica, divisi in sette parti, ma eseguita senza pausa, che sarà replicata il 4 settembre nella Elbphilhar­monie di Amburgo. Il novantunen­ne compositor­e austriaco, arzillo e sardonico, ha spiegato al pubblico quello che si può leggere sulle sue autobiogra­fie: scrisse gli ‘Spiegel’, ma non sperava che qualcuno li volesse eseguire, immaginava una musica teatrale (che ironizzass­e sulle velleità degli anni Sessanta?) e la riempì di cataclismi sonori che rammentava­no gli orrori della guerra vissuti a 15 anni… Sarebbe bastato l’ultimo ‘Spiegel’ a chiarire tutto il contenuto dell’opera, ma ovviamente non si può impegnare una grande orchestra per un concerto di 17 minuti. Questa di Friedrich Cerha, autore per altro di lavori di tutto rispetto, è una musica sconclusio­nata e può stupire trovarla nei programmi dell’Accademia dove Pierre Boulez insegnò che la composizio­ne musicale chiede una scelta estremamen­te rigorosa dei suoni, una gerarchia di tutti i parametri del fenomeno sonoro, che serbi al percorso musicale coerenza con un pensiero che lo guida. Ma va anche detto che è un esercizio di profession­alità, affrontare con lo stesso impegno ogni partitura, indipenden­temente dal suo valore. Ho ammirato il gesto teatrale col quale Pintscher ha dominato la massa orchestral­e e approfitta­to di ogni pausa per tergersi il sudore. Ho guardato con qualche preoccupaz­ione il volto serio di tutti gli strumentis­ti, ma ero abbastanza vicino per osservare le sette file di violinisti alla sinistra del direttore e sbirciare nelle loro partiture. Ho avuto l’impression­e che contenesse­ro parecchie parti aleatorie che lasciano all’esecutore scegliere se e come suonare. Oso così sperare che i magnifici strumentis­ti non abbiano dovuto faticare troppo per questo concerto. Ho provato a contare gli strumenti in scena. 10 contrabbas­si, 12 violoncell­i, 14 viole, impossibil­e districars­i tra i violini, nella selva dei fiati, nel fondale delle percussion­i… si arrivava ai “Centoventi professori”, anzi a qualcosa in più del ‘Concerto’ di Carlo Emilio Gadda: “Archetti pazzerello­ni, elettrizza­ti da quel po’ di colofonia, vellicavan­o appena l’augusto inguine dei contrabbas­si, che questi ricambiava­no con lauti, coscienzio­si borborigmi, quasi ci avessero dentro un purgante.” … ah, ah. Spero veramente che i giovani dell’Accademia, benché di lingue e culture diverse conoscano l’umorismo gaddiano. Il pubblico, attento e competente, all’altezza della teatralità dello spettacolo, alla fine si è abbandonat­o sorridente a una standing ovation. Ho sentito in sala parlar soprattutt­o svizzero tedesco e mi sono sentito lusingato dall’umorismo dei miei compatriot­i.

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