Borse e divise fra missili e uragani
Il nuovo missile di Kim Jong-un avrebbe, a detta degli operatori, gettato nel panico i mercati. E proprio ‘nel momento peggiore’: quando gli Stati Uniti erano alle prese con i disastri dell’uragano Harvey, il pasticcio del tetto sul debito federale e le divisioni politiche e sociali degenerate sotto la presidenza Trump. Martedì, a due giorni dalla nuova minaccia coreana, quel panico s’era tradotto in un sensibile rialzo dell’oro e un ulteriore ribasso nei rendimenti dei Treasury, come è lecito aspettarsi quando gli investitori cercano riparo dalle attività più rischiose; se non fosse che anche Wall Street s’era ritrovata a guadagnare qualcosina. Se si guarda ad altri dettagli, c’è da restare perplessi: le borse europee avevano lasciato sul terreno oltre l’1,5%, e lo si può comprendere se si pensa che nella logica degli investitori il Vecchio continente è destinato a soffrire di più; ma il dollaro, tradizionale valuta rifugio, ha curiosamente accelerato la caduta sull’euro e ha addirittura ceduto l’1% sulla valuta del Giappone, ossia del paese che aveva visto sorvolare il missile di Pyongyang. Si dice che questa serie di reazioni irrazionali e contraddittorie sia stata dettata dagli algoritmi del trading automatico: e può essere che sia così, benché non si capisca come a distanza di due giorni nessun essere pensante sia intervenuto a correggere il tiro. Sebbene nelle sedute successive qualcosa sia stato corretto, il mercato ha continuato a battere la strada degli ultimi mesi: comperare azioni americane (e semmai alleggerire quelle europee) e privilegiare titoli di stato e i bond societari ad alto rating. In questa convinzione i mercati s’erano rafforzati dopo l’incontro di Jackson Hole, quando né Janet Yellen né Mario Draghi avevano detto alcunché sulle future mosse delle rispettive politiche monetarie. Proprio per questo, ribattono gli operatori, perché nessuna notizia è buona cosa quando già s’è scommesso che la Fed non commetterà l’‘errore’ di rialzare i tassi a dicembre e la Bce, invece, ‘dovrà’ annunciare le linee della sua exit strategy. Il fatto che nel discorso della Yellen ci fosse spazio solo per riaffermare l’importanza delle regole nel sistema bancario e che in quello di Draghi l’accento fosse sui rischi del protezionismo, oltre che della deregolamentazione, ha rafforzato nell’esegesi dei mercati la convinzione che le cose stavano come gli investitori s’erano immaginati. La Fed non farà nessuna stretta perché l’economia americana sarebbe in affanno, a dispetto di un pil cresciuto oltre le attese (al 3%) e di una disoccupazione ai minimi storici; in ogni caso a sconsigliare l’eventuale stretta sarebbe l’inflazione scesa attorno all’1,5%: tuttavia, si potrebbe far notare, a un livello che rende negativi in termini reali i rendimenti dei Treasury fino a 5 anni. Di conseguenza, ragionano gli investitori anglosassoni, il dollaro proseguirà la sua corsa al ribasso: senza chiedersi se, con l’euro balzato a 1,20, la Bce, con singolare autolesionismo, davvero potrebbe decidere di accelerare i tempi d’uscita dal proprio quantitative easing. Ma, a dispetto degli algoritmi e di una tendenza esasperata dal consueto procedere a gregge degli investitori, l’euro, anziché salire, sembra aver arrestato la corsa e avrebbe dato segni ‘preoccupanti’ di un’inversione, quanto meno a detta degli analisti dell’americana Rbc. Meglio sarebbe dire che è stato il dollaro a dare quei segni, visto che il biglietto verde tra mercoledì e giovedì s’è rafforzato di oltre l’1% sulle principali valute. È presto per fare previsioni con mercati che ancora si ostinano nelle intraprese scommesse. Qualcosa di più, sul fronte dell’euro, lo sapremo fra tre giorni e ci sono buoni motivi per credere che Mario Draghi, a dispetto di quanto si augura una parte della speculazione d’oltreoceano, non cambierà l’assai prudente rotta indicata recentemente. Ma l’appuntamento cruciale sarà il 20 settembre, quando la Fed dovrebbe far capire se proseguirà sulla strada di una politica monetaria meno espansiva, come ripete da mesi, oppure si lascerà condizionare dalle pressioni dei mercati che non vogliono credere a un rialzo dei tassi a dicembre.