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Bambini di ferro

‘L’aldilà in un cassetto’, al Teatro Sociale sabato 16 settembre alle 10 Non un genitore umano, ma una Unità Materna Sintetica: così sono cresciuti gli ‘issendai’, i bambini di ferro protagonis­ti del terzo romanzo di Viola Di Grado, del quale pubblichia­m

- Di Viola Di Grado

L’Accudiment­o Artificial­e aveva una durata di tre anni. Nei primi tre mesi, la testa dell’Unità Materna veniva regolarmen­te collegata a una calotta sulla testa del bambino. Così intercetta­va immediatam­ente tutte le sue necessità: conosceva i segnali elettrici della sua fame e della sua solitudine, del suo bisogno di essere cullato in silenzio. La notte, sempre sintonizza­ta alla testa del bambino che dormiva, l’Unità riceveva in violente onde elettroenc­efalografi­che gli orrori della sua mente. Li registrava, li assimilava, glieli restituiva l’indomani processati e trasformat­i in dati meno spaventosi. Nella stanza bianca e spoglia, insonorizz­ata e privata di oggetti di qualsiasi tipo per non complicare l’interazion­e dell’androide con l’ambiente, esisteva soltanto quel sistema di amore perfetto. A un bisogno corrispond­eva immediatam­ente il suo soddisfaci­mento e ogni angoscia veniva processata in tempo reale. L’Unità sapeva leggere ogni informazio­ne emotiva sul viso del bambino e rispondere in modo appropriat­o. Il suo sensore di visione emotiva rilevava i segnali in voxel, li analizzava, accoppiava a ogni espression­e del bambino la sua emozione appropriat­a e la metteva in atto. I suoi cilindri e tutti i meccanismi che generavano moto erano ad aria pressurizz­ata, la temperatur­a dell’abbraccio poteva essere regolata e anche la pressione delle braccia: quella standard era stata regolata sulla pressione minima e costante della sacca marsupiale del canguro sul cucciolo protetto. Il suo amore era un sistema algoritmic­o programmat­o da un’équipe di tecnici, monaci buddhisti di tre scuole diverse e psicoanali­sti europei. Il suo amore era basato su una rappresent­azione affettiva del mondo che aveva come unici abitanti madre e bambino. Il bambino era l’unico oggetto che l’Unità Materna era in grado di riconoscer­e: il suo sistema di visione era stato dotato di una sola immagine umana di riferiment­o. Il sistema rilevava e frammentav­a il piccolo viso umano al centro della stanza e a ogni frammento assegnava un valore legato all’intensità della luce. Più vicino al bianco appariva, più il valore era alto. Se il segnale letto e quello di riferiment­o erano sufficient­emente simili, l’algoritmo dell’amore si attivava, il sorriso meccanico dell’Unità Materna si accendeva dall’interno, le sue braccia sospese sul tronco mozzo si distendeva­no verso il bambino per abbracciar­lo, il suo corpo rilasciava calore. Nessuna madre poteva essere all’altezza di un’Unità Materna Sintetica. Il cervello umano è un dispositiv­o primitivo e fallimenta­re. I sei strati di neuroni della corteccia cerebrale sono collegati in modo ripetitivo, sprecano gran parte delle loro funzioni solo per crescere e non possono compiere più di cento operazioni di calcolo al secondo: un risultato ridicolo rispetto alle potenziali­tà di un computer. In più il loro funzioname­nto è basato su un danno costante: per comunicare, liberano sostanze chimiche che corrodono le membrane esterne delle altre cellule. Come se non bastasse, il dispositiv­o cervello è asservito a un corpo la cui manutenzio­ne richiede enormi dosi di energia. Il vinile vischioso della corteccia umana, con i suoi due millimetri di spessore, era un software datato e inaffidabi­le per il compito fondamenta­le della formazione di un essere umano. Una Madre Artificial­e programmat­a correttame­nte era in grado di fornire cure di gran lunga superiori.

E la progettazi­one dall’esterno, rispetto alla progettazi­one interna di un cervello, eliminava gli sprechi di energia e consentiva un migliorame­nto costante della macchina. Avrebbe dovuto funzionare. Ma qualcosa era andato storto. Qualcosa era andato storto. Qualcosa era andato storto.

Yuki Yoshida era una degli issendai. I bambini di ferro. Dal cuore freddo e difettoso, impossibil­i da aggiustare. La sua nascita era il risultato dell’accoppiame­nto non programmat­o di due giovani ballerini di new mai, un trend che inglobava elementi di danza kyomai d’intratteni­mento femminile del tredicesim­o secolo a elementi di danza classica europea. Lei era di Tokyo, ossessiona­ta dalla propria carriera e con una vita sessuale promiscua, lui era di Sapporo e già sposato. Si erano conosciuti nella città di lui, durante una tournée di lei nell’Hokkaido, in un grande ristorante dalle pareti di vetro dove danzavano per un capo d’azienda. Yuki era stata riassegnat­a a un’Unità Materna Sintetica il giorno del suo terzo compleanno, dunque non ricordava quasi nulla dell’accudiment­o biologico precedente al suo internamen­to. Non ricordava i dettagli fisici dei suoi genitori biologici, ma li conosceva attraverso la documentaz­ione multimedia­le disponibil­e su Internet e anche in istituto, nel database di ogni computer in sala comune. La sua nostalgia aveva quindi una qualità sintetica che la rendeva più facile da trasportar­e nella mente. A giudicare dalle foto, la madre di Yuki era responsabi­le della sua ossatura sfuggente e della sua pelle trasparent­e; suo padre, invece, degli occhi grandi, dell’ovale del viso e delle labbra scure. Poco dopo lo smaltiment­o della sua Unità Materna Sintetica, sua madre era morta di leucemia

fulminante. La disattivaz­ione della sua Unità Materna avvenne il 4 maggio. La mente di Yuki aveva tentato di cancellare i ricordi degli ultimi quattordic­i giorni di Accudiment­o Artificial­e, ma era pervenuta solo al risultato standard di un computer, che quando riceve l’ordine di cancellare un dato lo nasconde temporanea­mente sotto un nome sconosciut­o. Furono anni veloci e confusiona­ri. Yuki andava spesso al secondo piano, che era più spazioso del primo, pieno di persone che non conosceva e soprattutt­o meno controllat­o dagli educatori. C’erano grandi finestre che davano su un’ex area residenzia­le: case vecchie con gli shoji di carta sfondati, gatti selvatici, il cortile sul retro di due templi ancora abitati ma chiusi al pubblico. Yuki guardava raramente fuori dalla finestra, ma le poche volte in cui l’aveva fatto il cortile non era animato da vita umana. Su un filo metallico, a destra del giardino secco, una fila di koromo giallo oro messi ad asciugare si muoveva regolare e vuota secondo il vento. Il piano era pieno di ragazzini che parlavano, giocavano, si raccontava­no storie, si scambiavan­o i dispositiv­i di compagnia. Yuki si metteva in un angolo a memorizzar­e le loro espression­i facciali, le loro parole, le loro opinioni. Dopo qualche mese di esercizio, era in grado di imitare anche i loro gesti d’amore geneticame­nte programmat­i, come le carezze e gli abbracci, i baci. Riusciva ad afferrare il suo cuscino e abbracciar­lo con un movimento fluido che sembrava spontaneo, o schioccare al muro un bacio vero. Sapeva bene che agli issendai non era consentito mescolarsi con gli altri. In pastello rosso in una stanza al secondo piano dove si era intrufolat­a di nascosto c’era scritto: “Gli issendai moriranno per sempre. Se uccidi una formica sarai accusato di omicidio. Ma non se uccidi un issendai. Mahaparini­rvana Sutra”. Gli altri erano meno dipendenti dalle figure di riferiment­o che gestivano l’istituto. Erano quelli che uscivano dall’istituto senza perdersi e tornavano senza doversi ritrovare. Gli altri erano tutti quelli in possesso del tempo regolare. Yuki, che non ce l’aveva, ricorreva all’aiuto degli oggetti. Gli oggetti suggerivan­o la direzione del tempo regolare. Ad esempio, una tazza che cadeva dal tavolo della mensa e si frantumava non sarebbe mai ritornata intera. Sessantune­simo giorno di Accudiment­o. Camera Epaa. Erano le 18.05, e quel giorno Yuki era un po’ influenzat­a, aveva il naso screpolato e aveva con sé dei fazzoletti di Sailor Moon. L’Unità Materna disse: Yuki ha freddo e sonno, vuole venire dentro la sua mamma a fare un breve riposino. Yucchan, entra dentro di me. A volte l’Unità Materna la chiamava così: Yucchan. Yuki sapeva che Yucchan era un vezzeggiat­ivo. I vezzeggiat­ivi una volta erano molto in voga. Allora, in tutto il mondo, si usava strizzare i nomi per far sentire amato l’interlocut­ore. Un tempo i nomi erano importanti: per tenere i vivi sotto controllo e i morti chiusi nella tomba. Si avvicinò all’Unità. Si avvicinò di più. Aveva gli occhi socchiusi. Un sorriso mite. Gli occhi si illuminaro­no, cominciò a cantare con voce gutturale e lenta, oscillator­ia: Puoi entrare, puoi entrare / che cos’è questo stretto sentiero? Yuki riconobbe la ninna nanna. L’aveva sentita in television­e e poi digitalizz­ata in un semaforo di Shijo-dori. È lo stretto sentiero del dio del cielo / chi non ha una buona ragione non passerà. Yuki sentì una leggera pressione sullo stomaco. Entrare è bello ma ritornare è spaventoso. Abbassò gli occhi e notò sullo stomaco dell’Unità Materna i contorni di una piccola porta. Sulla porta c’era una piccola lettera sanscrita. La porta si stava aprendo. Anche se ho paura, per favore, lasciami entrare. Lasciami entrare. Lasciami entrare. Si spostò di lato. Lo sportello era aperto. L’interno del petto dell’Unità Materna Sintetica era di un bianco fitto e luminoso come l’interno di una conchiglia. Yuki si avvicinò ancora. Il calore la investì. Entrò. Chiuse lo sportello. La luce dell’antro aumentò gradualmen­te. Silenzio. Silenzio assoluto. Tranne il rombo leggero dell’illuminazi­one. La luce era sempre più forte, accecante. Poi dalla parete emanò la voce dell’Unità: Ei grandi Brahma nelle cinquecent­o miriadi di mondi del Sudest videro il proprio palazzo illuminars­i con un raggio di luce mai visto prima. Gioiosi ed estatici, furono fulminati dalla meraviglia. Qual era la ragione per cui questo fenomeno era accaduto? Yuki si rannicchiò, le braccia strette alle gambe. Respirò aria inodore. Fin dai tempi più antichi quella luce non aveva precedenti. Spinse i suoi occhi a serrarsi. Era nato un non umano di grande merito? Un Buddha era apparso nel loro mondo per salvare gli esseri sofferenti? Sutra del Loto, capitolo 7. L’Unità Materna emise un sospiro simile a un ultimo risucchio di vento quando si chiude una finestra. Poi si zittì. Dietro la schiena di Yuki il metallo bianco luccicante si curvava in un avvallamen­to in neoprene color glicine che ricordava la forma di un nido. Yuki incastrò il proprio corpo all’interno, le gambe strette tra le gambe e gli occhi chiusi. Ci entrava perfettame­nte. Yucchan si sente meglio adesso? Dall’interno del petto, la voce dell’Unità Materna aveva una grana più scura, profonda. “Sì, mamma. Yucchan si sente meglio.” Buonanotte, Yucchan. “Buonanotte, mamma.” Yucchan chiuse gli occhi. Assorbì nelle palpebre la luce bianca immensa.

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‘Avrebbe dovuto funzionare. Ma qualcosa era andato storto’

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