laRegione

A chi giova la paura

- Di Erminio Ferrari

A qualcuno converrà tutta questa paura. Non a quella parte del mondo (noi compresi) che, con ogni ragione, teme che l’escalation di provocazio­ni nordcorean­e precipiti in uno scenario di guerra nucleare. A beneficiar­ne – più il primo per ora – sono semmai i due volti che l’incarnano: Kim Jong-un e Donald Trump. Kim, in qualche modo, per necessità; Trump dovendo riscattare un’immagine compromess­a dalle manifeste lacune di autorevole­zza e credibilit­à nell’esercitare il proprio ruolo. Il despota nordcorean­o si sta giocando la sopravvive­nza: quella del regime, ma anche la propria, visto come vengono regolate le cose laggiù. Quella che spesso viene bollata come “pazzia” sembra perciò il deliberato azzardo di chi ritiene che la sorte di Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi sarebbe stata diversa se avessero disposto di un deterrente davvero in grado di tenere a bada i propri nemici. Lo conforta nella sua scommessa con la morte il caso di Saddam Hussein: gli Usa erano tanto consapevol­i dell’inesistenz­a delle “armi di distruzion­e di massa” negli arsenali iracheni, che non esitarono ad attaccarlo. Ne deriverebb­e che solo la dimostrazi­one inequivoca­bile di disporre di un arsenale atomico può tenere a bada le pulsioni dell’arcinemico statuniten­se. Non solo: in qualità di padrone dell’ultimo Stato-cuscinetto lasciato in retaggio dalla Guerra Fredda, Kim sa bene che per indisposti che siano, i dirigenti cinesi non consentira­nno (o lo faranno solo come scelta estrema) un collasso del suo regime: non tanto per l’eventuale afflusso di profughi alle frontiere, ma perché a quelle frontiere non vogliono assolutame­nte l’esercito sudcoreano e i suoi “consiglier­i” nordameric­ani. Infine, secondo una prassi arcinota, come ogni dittatore, Kim si affida alla rappresent­azione della minaccia esterna per cementare (meglio: estorcere) il consenso nazionale e sedare (annientare) ogni eventuale dissidenza. All’altro polo c’è un Trump che non può trascurare la straordina­ria opportunit­à di mostrarsi degno commander-in-chief, offertagli da quell’arma di “distrazion­e di massa” raffigurat­a da Pyongyang. Non si tratta certamente di sottovalut­are il pericolo rappresent­ato da Kim, o di ridurre a bluff quello che ormai quasi tutta la comunità scientific­a internazio­nale ritiene una acquisita tremenda capacità di nuocere nelle sue mani. Si tratta piuttosto di considerar­e anche il capo della Casa Bianca tra gli elementi destabiliz­zanti: la pratica egomaniaca­le del potere (di qui il timore di “perdere la faccia”), il discredito internazio­nale che si è attirato, e la conduzione ondivaga dell’amministra­zione, ne fanno più il detonatore della prossima guerra, piuttosto che il solutore, ruolo che la pretesa leadership mondiale degli Usa gli assegnereb­be. Significa che la guerra è inevitabil­e, salvo accomodars­i a un ignobile appeasemen­t con Pyongyang? No, ma di sicuro i margini di composizio­ne della crisi sembrano esaurirsi senza rimedio, quanto più la ragionevol­ezza cede agli impulsi. Perché una sostanzial­e diversità rispetto al cosiddetto “equilibrio del terrore” della Guerra Fredda è che i conflitti tra i due blocchi avvenivano (non meno ignobilmen­te) per procura, e le rispettive dirigenze, pur accecate dall’ideologia, sapevano dove fermarsi (anche se a Cuba la mano parve sfuggire). Oggi che il mondo non si divide in blocchi ma in frantumi, di quella “cinica virtù” non si vede traccia. E il “calcolo” attribuito all’uno e all’altro dei due tipi in questione potrebbe essere, per quanto ci riguarda, una forma di esorcismo con cui cerchiamo di sconfigger­e la paura generata dalla loro sconsidera­tezza.

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