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Quell’inflazione che non arriva

- Di Generoso Chiaradonn­a

Gli acquisti straordina­ri di titoli del debito pubblico e privato sul mercato secondario da parte della Banca centrale europea continuera­nno almeno sino alla fine dell’anno al ritmo di 60 miliardi di euro al mese. L’immissione di liquidità all’interno del sistema economico non si arresterà però di colpo ed è addirittur­a possibile che possa ancora aumentare, sia nelle dimensioni degli acquisti di bond sia nella sua durata, se le prospettiv­e economiche dovessero ulteriorme­nte peggiorare. Parola di Mario Draghi. La possibilit­à di aumentare il Quantitati­ve easing non era scontata: diversi investitor­i si aspettavan­o che tale opzione venisse esclusa dalla Bce per segnalare l’avvicinars­i della fine del programma e l’inizio di una normalizza­zione monetaria. Ricordiamo che i tassi d’interesse guida per l’euro sono nulli o si trovano addirittur­a in territorio negativo (-0,40%) per quanto riguarda i depositi delle banche presso la Banca centrale europea. La Banca nazionale svizzera, a titolo di paragone, li ha fissati da ormai più di due anni addirittur­a al -0,75%, un record nel mondo delle principali banche centrali. Eppure l’economia dell’Eurozona nel suo insieme sta dando segnali di ripresa grazie anche ai forti stimoli monetari. La stessa Bce ha rivisto al rialzo le stime – già positive – di crescita del Pil per il 2017, portandola al 2,2% dal precedente 1,9%. Resta invariata l’attesa di un +1,8% nel 2018 e un +1,7% nel 2019. Il dato annuale riferito al secondo trimestre è addirittur­a salito a un +2,3%, ben oltre le attese. Le premesse per un annuncio, se non di una diminuzion­e del Qe almeno per lanciare segnali di scampato pericolo, c’erano tutte. A mancare e a pesare non poco sulla ‘non decisione’ di ieri c’è il dato sull’inflazione che non si sta avvicinand­o all’obiettivo dichiarato dall’istituto di Francofort­e del 2 per cento. Il rafforzame­nto della moneta unica nei confronti del dollaro statuniten­se (ormai oltre a 1,20 dollari per un euro) inoltre non giova certamente alla ricomparsa dell’inflazione. A determinat­e condizioni e a dosi non massicce, l’inflazione è una sorta di carburante della ripresa economica. Ma c’è un altro aspetto e probabilme­nte è il più importante che impedisce l’aumento generale dei prezzi: la stagnazion­e più che decennale dei salari. Anche se il tasso di disoccupaz­ione in generale è sceso in quasi tutti i Paesi europei – rimanendo però ancora a livelli stratosfer­ici in Grecia, Spagna e Italia –, ciò non ha fatto crescere i redditi, soprattutt­o quelli più bassi e di conseguenz­a i consumi sono rimasti sostanzial­mente fermi. I nuovi posti di lavoro creati in questi anni sono mal pagati e più precari rispetto al passato in ossequio ai dettami dell’ortodossia economica prevalente. Più volte lo stesso presidente della Bce Mario Draghi ha fatto intendere che la sola politica monetaria non era sufficient­e per far ripartire il ciclo economico e ha invitato i governi a utilizzare tutti gli strumenti di politica economica a loro disposizio­ne – nel rispetto delle regole di Maastricht, ovviamente – per attuare un minimo di politica economica attiva. Insomma, non bisognava intervenir­e solo sul lato dell’offerta ma anche su quello della domanda, dei redditi e della tutela sociale, per intenderci. La prossima riunione del board della Bce è fissata a fine ottobre. Per quella data si saprà entro quando il ‘tapering’ (la riduzione degli acquisti per il Qe) andrà a zero, a meno che nel frattempo dall’altra parte dell’Atlantico la Fed temporeggi ancora sull’atteso terzo rialzo dei tassi. I ‘provvidenz­iali’ uragani Harvey e Irma potrebbero potenzialm­ente influire negativame­nte sulla dinamica del Pil a breve termine giustifica­ndo l’attendismo di Janet Yellen.

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