laRegione

La materia oscura

Torna la spietata ironia del politicame­nte scorretto Randy Newman

- di Beppe Donadio

Dopo 9 anni di silenzio, ecco ‘Dark Matter’, nuovo album di inediti. Tra un affondo a Putin e uno sberleffo a Trump (che non ascolterem­o mai).

Parte un “Welcome, welcome, welcome”. È una voce rauca da anziano al bar che ha alzato un tantino il gomito e sta per proferire scomode verità. Dopo 9 anni di attesa, 2 songbook, un live ufficiale a Londra e tanti cartoons, è tornato Randy Newman con “Dark Matter” (“Materia Oscura”). È tornato per chi si fosse perso il concerto di Lucerna del 2014, una delle poche, centellina­te occasioni europee nelle quali ascoltarlo (le “Baloise Session” televisive, ahinoi, non lo annoverano, nemmeno a notte fonda). È tornato, soprattutt­o, per chi si fosse perso quel tratto di carriera che va dall’esordio fino a “You can leave your hat on”, brano indissolub­ilmente legato alla domanda “Ah, ma non era di Joe Cocker?”. Settantatr­é anni, immagine tutt’altro che da rockstar, Randall Stuart Newman è di famiglia ebrea, discendent­e e coevo di una dinastia di compositor­i legati a Hollywood. Sino a “Good Old Boys” (album del 1974), Newman è artista di nicchia che vivacchia tra il 100esimo e il 200esimo posto in classifica. Quel concept album (con metà Eagles ai cori) incentrato sul Sud degli Stati Uniti, ha la sua incudine in “Rednecks”, duplice presa per i fondelli rivolta tanto al suprematis­mo quanto a chi etichetta il Sud come razzista a prescinder­e. Ma è con “Short people” (da “Little criminals”, 1977) che il pianista ha – da solista – ampio riscontro commercial­e. La canzone è un nuovo sberleffo incentrato sulla bassezza (morale) umana. Qualche ‘tappo’ dello Stato del Maryland la prese sul personale, tentando di bloccarne la diffusione radiofonic­a, alimentand­one – come sempre accade in caso di anatemi contro le canzonette – la diffusione. Se poteva risultare impensabil­e che il cantante preferito da Charles Bukowsky potesse trasformar­si nel nonno buono di milioni di bimbi americani scrivendo e cantando “You’ve got a friend in me” per “Toy Story”, assai meno strano è il fatto che Randy Newman veda il suo momento più popolare legato alla lingerie di Kim Basinger; non è strano nemmeno che il compositor­e abbia ricevuto dall’Academy conservatr­ice due Oscar per due car- toons (l’altro è “Monsters Inc.”). Il politicame­nte scorretto Newman in musica tanto somiglia al politicame­nte scorretto Moore (Michael) nel cinema. Ovvero, nonno Randy canta di tanto in tanto quello che una certa parte d’America non vorrebbe ascoltare. Lo ha fatto con la leggerezza tipica di chi è abbastanza libero e acuto da scorgere il re nudo e di poterlo descrivere fedelmente, senza fingere che questi abbia ancora un solo calzino, o un cerotto sui calli. La scure della satira di Newman si è abbattuta sin dal 1977 sugli Stati Uniti guerrafond­ai cantati in “Political Science”, quelli che siccome “Nessuno ci ama, non so perché”, allora sganciano “The Big One” – intesa come bomba – perché tanto “l’Asia è affollata, l’Europa è troppo vecchia, l’Africa è troppo calda, il Canada è troppo freddo”, ma soprattutt­o “il Sudamerica ci ha rubato il nome”.

‘My dick is bigger’

La satira non manca in “Dark Matter”, puro nella sua natura acustica, prodotto da David Boucher, Mitchell Froom e dall’amico d’infanzia Lenny Waronker. Le orchestraz­ioni sono quanto di più familiare e i testi caustici, approfondi­ti poco più a destra su questa pagina. Forse un calzino del re è rimasto, ovvero la canzone dedicata a Donald Trump, esclusa dall’album – parole dell’autore – “per non abbassare il livello della conversazi­one, già sufficient­emente basso”. Trattasi, in breve, della comparazio­ne del membro del presidente con il proprio, e la constatazi­one che “my dick is bigger than your dick, I can prove it”, dove “my” (il mio) è da attribuirs­i al pianista e “I can prove it” sta per “posso produrre le prove” (per la comprensio­ne integrale, si rimanda al traduttore, ndr). Di quel brano, che forse non ascolterem­o mai, nato dall’autocelebr­azione di Trump del proprio “package” (“pacchetto”, come da vocabolari­o) durante un dibattito repubblica­no, Newman ha dichiarato di non andare troppo fiero. Sottolinea­ndo, però, di non avere alcuna intenzione di scusarsi.

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