laRegione

‘Tantus labor non sit cassus’

- Di Enrico Colombo

Ricorderò come il “Dies irae” di Patricia Kopatchins­kaja lo spettacolo messo in scena alle dieci di sera nel Luzerner Saal, anche se sul programma di sala ci sono due pagine con nomi di interpreti, registi, strumentis­ti, cantanti, alcuni prestigios­i, ma che qui non ho il posto di trascriver­e. La violinista, “artiste étoile” di questo Festival, è stata l’ideatrice di un vero programma di crisi, che si proponeva di non lasciare gli spettatori tranquilli fruitori dello spettacolo, ma di scuotere la loro coscienza, la loro eventuale indifferen­za di fronte ai problemi del mondo e li ha costretti a due ore di sforzo fisico e mentale, non già di passatempo. Oggi, mentre le funzioni religiose perdono fedeli, gli eventi culturali diventano momenti privilegia­ti di elevazione spirituale e le sale da concerto luoghi ideali per celebrare la drammatici­tà del “Dies irae”. Ma per ricordare, ad esempio, che la religione non dev’essere un modo dolce e consolator­io, bensì tragico e sconvolgen­te di pensare la vita e il suo al di là, potrebbe ancora bastare la musica che Olivier Messiaen riversava sui fedeli dall’organo della Trinité, una musica pura senza il corredo di azioni sceniche. Kopatchins­kaja ha scelto musiche profane e sacre di secoli diversi, accompagna­te da movimenti scenici non indispensa­bili alla musica, proiezioni invasive, luci violente, anche in faccia agli spettatori. Il suo programma spaziava dal canto gregoriano e bizantino alla musica contempora­nea, con brevi brani di Jorge SánchezChi­ong e Michael Hersch in prima esecuzione assoluta e assai intriganti, ma con una prevalenza di musiche degli anni sessanta del Novecento, quelli dell’avanguardi­a a tutti i costi, del dadaismo reinventat­o con mezzo secolo di ritardo. C’erano due composizio­ni del criptoroma­ntico Giacinto Scelsi che s’ispira a filosofie orientali, commentate da immagini, che mi sono sembrate poco significat­ive. Poi, verso la fine del programma i venti minuti del “Dies irae” di Galina Ustwolskaj­a, che, salvando il dovuto rispetto alla compositri­ce allieva di Schostakow­itsch e come il maestro vittima della repression­e statale, spero di mai più dover ascoltare dall’inizio alla fine: un dialogo monotono fra pianoforte e otto contrabbas­si, solenne forse come una marcia al patibolo, commentato dai colpi del percussion­ista che batte con due mazzuoli su una tavola di legno. “Tantus labor non sit cassus”, che tanta sofferenza non vada perduta. Un ristoro per l’ascolto la chiusura del concerto con il “Dies irae” in gregoriano, cantato da voci angeliche, tuttavia non molto aggiornate sugli studi gregoriani, che sono partiti dall’Abbazia di Solesmes e hanno attraversa­to l’intero Novecento. Gli spettatori hanno lasciato la sala, divisi fra entusiasti e delusi, ma assorti “come a nessun toccasse altro la mente”.

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