‘Tantus labor non sit cassus’
Ricorderò come il “Dies irae” di Patricia Kopatchinskaja lo spettacolo messo in scena alle dieci di sera nel Luzerner Saal, anche se sul programma di sala ci sono due pagine con nomi di interpreti, registi, strumentisti, cantanti, alcuni prestigiosi, ma che qui non ho il posto di trascrivere. La violinista, “artiste étoile” di questo Festival, è stata l’ideatrice di un vero programma di crisi, che si proponeva di non lasciare gli spettatori tranquilli fruitori dello spettacolo, ma di scuotere la loro coscienza, la loro eventuale indifferenza di fronte ai problemi del mondo e li ha costretti a due ore di sforzo fisico e mentale, non già di passatempo. Oggi, mentre le funzioni religiose perdono fedeli, gli eventi culturali diventano momenti privilegiati di elevazione spirituale e le sale da concerto luoghi ideali per celebrare la drammaticità del “Dies irae”. Ma per ricordare, ad esempio, che la religione non dev’essere un modo dolce e consolatorio, bensì tragico e sconvolgente di pensare la vita e il suo al di là, potrebbe ancora bastare la musica che Olivier Messiaen riversava sui fedeli dall’organo della Trinité, una musica pura senza il corredo di azioni sceniche. Kopatchinskaja ha scelto musiche profane e sacre di secoli diversi, accompagnate da movimenti scenici non indispensabili alla musica, proiezioni invasive, luci violente, anche in faccia agli spettatori. Il suo programma spaziava dal canto gregoriano e bizantino alla musica contemporanea, con brevi brani di Jorge SánchezChiong e Michael Hersch in prima esecuzione assoluta e assai intriganti, ma con una prevalenza di musiche degli anni sessanta del Novecento, quelli dell’avanguardia a tutti i costi, del dadaismo reinventato con mezzo secolo di ritardo. C’erano due composizioni del criptoromantico Giacinto Scelsi che s’ispira a filosofie orientali, commentate da immagini, che mi sono sembrate poco significative. Poi, verso la fine del programma i venti minuti del “Dies irae” di Galina Ustwolskaja, che, salvando il dovuto rispetto alla compositrice allieva di Schostakowitsch e come il maestro vittima della repressione statale, spero di mai più dover ascoltare dall’inizio alla fine: un dialogo monotono fra pianoforte e otto contrabbassi, solenne forse come una marcia al patibolo, commentato dai colpi del percussionista che batte con due mazzuoli su una tavola di legno. “Tantus labor non sit cassus”, che tanta sofferenza non vada perduta. Un ristoro per l’ascolto la chiusura del concerto con il “Dies irae” in gregoriano, cantato da voci angeliche, tuttavia non molto aggiornate sugli studi gregoriani, che sono partiti dall’Abbazia di Solesmes e hanno attraversato l’intero Novecento. Gli spettatori hanno lasciato la sala, divisi fra entusiasti e delusi, ma assorti “come a nessun toccasse altro la mente”.