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L’Unione europea e l’Africa

- Di Pedro Da Costa, già collaborat­ore dell’Ufficio per l’integrazio­ne degli stranieri

Negli ultimi tre decenni, la cooperazio­ne tra l’Unione europea e l’Africa ha prevalente­mente assunto la forma di aiuto allo sviluppo. Questa tendenza si è accentuata negli ultimi quindici anni, in particolar­e nell’ambito degli Osm (Obiettivi di sviluppo del millennio). In effetti, l’Unione europea ha fornito quasi un quinto dell’aiuto allo sviluppo di cui l’Africa ha beneficiat­o tra il 2000 e il 2015. Con i suoi Stati membri, è stato il primo partner per lo sviluppo dell’Africa, finanziand­o più della metà dell’aiuto pubblico a destinazio­ne del continente. Quest’impegno senza precedenti, che mirava in particolar­e ad estirpare l’estrema povertà e a promuovere la pace e la sicurezza, si è concretizz­ato soprattutt­o nell’ambito dell’accordo di Cotonou (partenaria­to che doveva, tra l’altro, favorire il pieno inseriment­o dell’Africa nell’economia mondiale: così l’Europa avrebbe permesso all’Africa di uscire dalla crisi, avviandola sulla strada della prosperità). Al momento del lancio degli Oss (Obiettivi di sviluppo sostenibil­e), il nuovo quadro globale a favore dello sviluppo, ci si può interrogar­e sull’efficacia di questo modello di cooperazio­ne Unione europea/Africa, che fatica a creare condizioni di vita decenti su un continente dove nel 2050 vivrà un quarto della popolazion­e mondiale. Il problema dell’immigrazio­ne clandestin­a provenient­e dall’Africa a destinazio­ne Europa è sempre particolar­mente sentito, ed evidenzia molto bene i limiti di questa politica d’aiuto. Se ci si riferisce al numero sempre crescente di africani disperati pronti a rischiare la propria vita per raggiunger­e l’eldorado europeo, si può facilmente dedurre che questo partenaria­to per lo sviluppo va ripensato, adottando un approccio più inclusivo.

Parimenti, sarebbe opportuno interrogar­si sulla pertinenza delle politiche d’integrazio­ne regionale in Africa, spesso concepite in una logica di mimetismo istituzion­ale, messe in atto da organismi regionali sovvenzion­ati e gestite da Stati essi stessi in costruzion­e. D’altronde, uno dei principali ostacoli che limitano l’efficacia di quest’aiuto allo sviluppo è il malgoverno. Questo può essere attribuito alla debolezza delle istituzion­i e al carattere a volte endemico delle pratiche neopatrimo­niali presenti in molti Paesi africani, che contribuis­cono a indebolire l’efficacia di un aiuto europeo peraltro considerev­ole. Inoltre, l’emergenza dei dirigenti che potrebbero allentare la morsa internazio­nale si trova ostacolata dalle ingerenze, dirette o indirette, degli ex Paesi colonizzat­ori. Ma al di là delle manovre occidental­i, le stesse élite locali si mostrano incapaci di proporre una visione dell’interesse comune: non esiste alcuna visione africana della mondializz­azione. Inoltre, con le innumerevo­li turbolenze vissute negli ultimi anni – crisi finanziari­e, sociali e politiche – l’Europa continua a far sognare in Africa soltanto grazie alla sua reputazion­e di terra promessa. Ma la ruota gira e il mito non è eterno. Se è vero che l’impegno dell’Europa a favore dello sviluppo in Africa è stato a volte percepito con diffidenza, l’attuazione degli Oss è senza dubbio una buona occasione per ripensare la cooperazio­ne euro-africana. L’Europa deve impegnarsi a costruire veri partenaria­ti con un’Africa emergente, partendo da politiche di sviluppo congiunto più inclusive e che corrispond­ano ai bisogni effettivi delle popolazion­i locali. Un tale approccio avrebbe anche il vantaggio di essere una buona terapia di riconcilia­zione tra l’Europa dei popoli e quella delle istituzion­i.

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