Il senso della fine
Intervista a Viola Di Grado, ospite del festival di traduzione e letteratura Babel
Premio Campiello opera prima nel 2011, la giovane narratrice catanese racconterà della morte, tema universale perché rappresenta il ‘nostro limite fisico, ciò che dona senso a ogni nostra azione’
“Nel 2011 è finito il mondo: mi sono uccisa. Il 23 luglio, alle 15.29, la mia morte è partita da Catania. Epicentro il mio corpo secco disteso, i miei trecento grammi di cuore umano, i seni piccoli, gli occhi gonfi, l’encefalo tramortito, il polso destro poggiato sul bordo della vasca, l’altro immerso in un triste mojito di bagnoschiuma alla menta e sangue”. Queste sono le prime secche e crude righe del romanzo ‘Cuore cavo’, che racconta la vita da una prospettiva ultraterrena. La protagonista è la venticinquenne Dorotea Giglio, che decide di togliersi la vita in una Catania sulfurea e cupa. La storia racconta di affetti e rapporti complicati; della vita che non si arrende alla morte. ‘Cuore cavo’ (2013; Edizioni E/O) è il secondo romanzo di Viola Di Grado, giovane scrittrice italiana, nata nel 1987 a Catania, laureatasi in Lingue e filosofie dell’Asia orientale (Torino e Londra) ospite della dodicesima edizione, dedicata all’aldilà, di Babel il festival di letteratura e traduzione che si aprirà questa sera alle 20.30 al Cinema Forum di Bellinzona con la proiezione di ‘Sudoeste’ di Eduardo Nunes e proseguirà, al Teatro Sociale, fino a domenica. Il primo romanzo-rivelazione ‘Settanta acrilico trenta lana’ (2011; Edizioni E/O) è valso a Viola Di Grado il premio Campiello opera prima; il libro è stato finalista al Premio Strega così come al Rapallo Carige Opera prima. Ha inoltre scritto un terzo romanzo ‘Bambini di ferro’ (2016; La Nave di Teseo) ambientato in un Giappone del futuro e alcuni racconti.
La morte è topos letterario di ogni tempo e luogo. In ‘Cuore cavo’ è raccontata dalla prospettiva di una suicida: perché quest’invenzione forte e cupa?
Non m’interessano le mezze misure. La morte è una metafora forte, ma basta leggere tra le righe del libro per capire che Dorotea era più morta, invisi- bile, fantasmatica quando era in vita. Adesso è un residuo, una forma di vita che a un certo punto apprende la compassione: verso chi non l’ha capita, amata nel modo giusto, verso il suo stesso corpo, che lei va a trovare e che guarda disgregarsi e scomparire.
Questo libro non è il solo in cui la morte fa capolino e non solo quella fisica ma anche metaforica: che cosa l’affascina di questo soggetto? Perché usarlo come escamotage letterario?
È impossibile non parlare della morte. La morte è il nostro limite fisico, è ciò che ci esaurisce, ciò che – sebbene inconsciamente negato nelle nostre vite quotidiane – dona senso a ogni nostra azione. Non credo esista un libro che non parli della morte.
Rispetto ad altre sue narrazioni, questo libro ha come ‘epicentro’ Catania, sua città natale. È una storia autobiografica? La protagonista è una venticinquenne, anche l’età sembrerebbe corrispondere…
Per fortuna io non sono morta, o almeno credo! Di solito do alle mie protagoniste la mia età per un eccesso di onestà. Riguardo Catania, è un posto perfetto per la storia di una ragazza morta: architettura nera in pietra lavica, eruzioni vulcaniche, piogge di cenere nera, piccole gang che pestano o accoltellano persone a caso in centro di sabato pomeriggio davanti a carabinieri impassibili. Io ci ho vissuto sempre male, con molto attrito.
Rimanendo nell’ambito della geografia, pensando in particolare a ‘Settanta acrilico trenta lana’ e ‘Bambini di ferro’, si è anche cimentata in ambientazioni orientali. Perché raccontare una cultura così lontana? Non si tratta di per sé di una traduzione in senso ampio?
La conoscenza di ciò che è lontano serve e capire meglio ciò che ci è vicino. A toglierci di dosso le piccolezze autoreferenziali del nostro vissuto. Ho voluto studiare lingue, letterature e filosofie orientali proprio per costruire uno spazio linguistico e immaginativo il più neutro possibile, dove poter creare mondi universali, dove l’approssimazione del linguaggio fosse più bassa possibile.
Che cosa la affascina del mondo e della cultura d’Oriente?
Della Cina mi affascina la profondità del pensiero filosofico e la lingua più simile al canto degli uccelli che ad altre lingue. Del Giappone mi affascina il cinema classico, disperato e cannibalesco, e il fatto che la ricerca della bellezza abbia marcate connotazioni religiose.
I suoi libri sono tradotti in otto Paesi: che rapporto ha con traduzione e traduttori?
Collaboro con quelle inglesi/americane. Tradurre è un’operazione nobilissima e pericolosa. Si tratta di creare, con estrema inventiva e mimetica dedizione, un libro che sia più simile possibile a quello di partenza pur sapendo che sarà sostanzialmente diverso: creare un suo pianeta gemello. Nel frattempo sono diventata traduttrice anch’io: ho appena finito di tradurre “All Grown Up” di Jami Attenberg. La mia missione era creare, parola dopo parola, un registro linguistico che restituisse la vivacità autentica e trascinante dell’originale.
Riguardo alla sua biografia di narratrice, quando ha iniziato a scrivere? Come ha vissuto l’enorme successo del suo primo romanzo?
L’ho vissuto cercando di restare gentile. Scrivo da quando avevo cinque anni. Mi sentivo aliena in mezzo ai miei coetanei, vivevo su un’altra frequenza, ma quando scrivevo ero finalmente me stessa.
Un’ultima domanda. Ogni scrittore è figlio delle letture di cui si è nutrito e si nutre. Quali sono le sue ‘lanterne’ letterarie?
Virginia Woolf, Sylvia Plath, Dylan Thomas, Rilke, Amelia Rosselli, Anne Sexton, Paul Auster, Kawabata Yasunari, Murasaki Shikibu.
Si potrà incontrare Viola Di Grado sabato 16 settembre al Teatro Sociale (alle 10), sul palco insieme a Ugo Cornia e Daniele Benati; ospiti dell’appuntamento “L’aldilà in un cassetto”. Info: www.babelfestival.com.