laRegione

Oltraggio alla Catalogna

di Erminio Ferrari

- Di Erminio Ferrari

Il vicolo cieco in cui è finito il durissimo confronto tra gli indipenden­tisti catalani e il governo spagnolo ripropone in tutta la sua portata destabiliz­zante uno dei fenomeni che più segnano la nostra epoca, l’imporsi delle “piccole patrie” nel discorso pubblico, con forza e astio crescenti. Un sottogener­e di quella “retrotopia” su cui ha ragionato anche Zygmunt Bauman verso la fine dei suoi giorni. Oggi, il caso catalano raffigura, nella variante identitari­a, il diffuso conflitto tra poteri statali sempre meno riconosciu­ti nella loro legittimit­à, e una pretesa sovranità alternativ­a: (…)

Segue dalla Prima (…) sovranità “del popolo”, nelle parole dei populisti (di destra o sinistra che siano); o “delle nazioni”, nelle rivendicaz­ioni dei sovranisti. Naturalmen­te, vi sono specificit­à della questione catalana che suggerisco­no prudenza nel parlarne. Diciamo che tra la rivendicaz­ione di una indipenden­za risalente a tre secoli fa, una astorica rigidità che sembra impedire a Madrid di “entrare in argomento” senza pregiudizi politici e ideologici; tra il retaggio della guerra civile e della dittatura franchista, e il non trascurabi­le particolar­e che la Catalogna con meno di un quinto della popolazion­e spagnola produce un quinto della ricchezza nazionale, tutto ciò considerat­o, distinguer­e tra capziosità e fondatezza degli argomenti dei due fronti è ben arduo. Ma vi sono delle costanti che fanno della vicenda catalana un caso di scuola per ragionare sulle forme e l’estensione del ritorno in auge delle piccole patrie e dell’identitars­imo che vi è connaturat­o. Un fenomeno che spesso viene comprensiv­amente diagnostic­ato come “reazione alla globalizza­zione”. Può darsi che lo sia: in un mondo in cui i poteri economico-finanziari sovranazio­nali hanno ridotto in macerie sovranità statali, cancellato orizzonti ideali, imposto, molto sempliceme­nte, la legge del più forte, in un mondo del genere, la riscoperta di radici etniche, culturali, politiche sarebbe la sola risorsa a cui votarsi per non venirne travolti. Di qui la corsa a tracciare nuovi confini, a riesumarne o inventarne di vecchi, a identifica­re se stessi (comunità o nazioni) non in relazione ma in opposizion­e agli altri, tanto più se portatori di culture diverse, ma anche se ancora se ne condivide la cittadinan­za. Nel caso poi delle ambizioni micronazio­naliste, l’autodeterm­inazione dei popoli viene esposta come principio di cui è praticamen­te impossibil­e contestare la nobiltà. Eppure un dubbio resta. Viene cioè da chiedersi se questa frammentaz­ione identitari­a non sia in fin dei conti funzionale alla surroga dei grandi orizzonti ideali (e di un ormai spossato sistema di norme e istituzion­i che ne rifletteva­no l’universali­smo) da parte di un mercatismo senza volto né limiti. L’ultimo simulacro di edificio istituzion­ale virtuoso, fondato su una pluralità di esperienze storiche e sulla dialettica delle loro culture era quell’Europa al cui interno, si diceva, le sovranità avrebbero perso il significat­o di reciproca esclusione, e il potenziale distruttiv­o che ne ha insanguina­to la storia per secoli. Oggi, anche la crisi di quell’Europa libera tossine che ne accelerano la fine scritta sui confini che, uno alla volta, si richiudono o si inventano. Il signor Globalizza­zione si starà fregando le mani.

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