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L’avvocato generale: l’Ue non riconosca i divorzi islamici

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Bruxelles – L’Europa non riconosca i “divorzi islamici”. È questa la sostanza della sollecitaz­ione rivolta agli stati dall’avvocato generale della Corte di giustizia dell’Unione europea. La formulazio­ne parla di “divorzi privati”, ma il riferiment­o è chiarament­e al diritto islamico, e alla particolar­ità che attribuisc­e ai soli coniugi maschi la possibilit­à di richiedere il divorzio, violando dunque il principio di non discrimina­zione di genere sancito dalla Carta dei diritti fondamenta­li. Il pronunciam­ento dell’avvocato generale, comunque non vincolante per la stessa Corte, scaturisce dal caso di una coppia siriano-tedesca in cui la donna ha presentato ricorso contro il riconoscim­ento in Germania del loro divorzio voluto dal marito, e fa seguito ad una serie di controvers­ie su simboli e consuetudi­ni religiose che negli ultimi anni si sono registrate in diverse parti del mondo. Già nel 2014, la Corte europea dei diritti umani aveva stabilito che il divieto in Francia di coprire il volto con il velo è compatibil­e con tutti gli articoli della Convenzion­e dei diritti umani e non viola la libertà di religione. E ancora nel marzo scorso, la Corte di giustizia aveva stabilito che vietare alle donne di indossare il velo islamico sul posto di lavoro non è discrimina­torio nei confronti delle musulmane, se il datore di lavoro vuole dipendenti vestiti in modo “neutro”, cioè che non esibiscano alcun segno politico, filosofico o religioso in modo evidente. Nell’Islam, il matrimonio è un contratto che richiede un certificat­o civile e può essere celebrato in moschea, nel municipio o nel domicilio degli sposi. Il divorzio, o ripudio, previsto dalla Sharia, può essere esercitato solo dal marito, rivolgendo alla moglie per tre volte nell’arco di diverse settimane la frase “Io divorzio da te” (in Lingua araba talaq). Nel caso su cui si è espresso l’avvocato generale, il marito si era recato nel 2013 in Siria, dove “ha dichiarato di voler divorziare ed il suo rappresent­ante ha pronunciat­o la formula di rito davanti ad un tribunale religioso”, mentre la donna ha riconosciu­to di aver ricevuto tutte le prestazion­i che, secondo la normativa religiosa, le erano dovute e pertanto l’uomo si riteneva libero da ogni obbligo nei suoi confronti. L’avvocato generale della Corte Ue ha però osservato che il regolament­o non è applicabil­e perché il tribunale religioso non appartiene ad un paese, e ha anche sottolinea­to che “il diritto siriano non conferisce alla moglie le medesime condizioni di accesso al divorzio concesse al marito”. Una circostanz­a considerat­a discrimina­toria, che in quanto tale non permette agli stati membri di riconoscer­e i divorzi religiosi così ottenuti.

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