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Nelle braccia di Mutti

Angela Merkel si avvia a essere rieletta nelle elezioni legislativ­e del 24 settembre, diventando così il capo di governo più longevo della Germania contempora­nea. Un capolavoro politico, frutto soprattutt­o della capacità di spuntare le armi degli avversar

- Di Erminio Ferrari

Sarà anche una che non sa mai dove mettersi nelle fotografie, ma Angela Merkel sembra aver sempre saputo quando, dove e soprattutt­o se esserci nei momenti che contavano. Acume politico, per i suoi estimatori; opportunis­mo per i detrattori. Fortuna sfacciata, secondo altri, quel “fattore c...” al cui proposito Silvio Berlusconi si espresse con la trivialità di cui era gran maestro. Fatto sta che se il 24 settembre Mutti, come ama essere chiamata, diventerà la cancellier­a più longeva nella Germania del dopoguerra, qualcosa di suo deve avercelo messo. Amici e nemici dovranno pur ammetterlo: la sua capacità di essere, almeno per ora, “la sola alternativ­a a se stessa” è un successo che a ben pochi altri politici è riuscito di ottenere. In un mondo la cui potenza egemone è di fatto acefala, e in un’Europa dove i fenomeni disgregati­vi minano la sua stessa storia, Merkel è un brand che assicura il successo. Come ha osservato Michael Braun (autore di ‘Mutti’, ed. Laterza), anche chi non la ama potrebbe finire per scegliere il suo “usato sicuro”. Cresciuta e laureata in una Ddr in cui era frequente vedersi offrire un impiego dai servizi segreti, Merkel si sottrasse alle lusinghe della Stasi, restando in un tranquillo anonimato. La sera stessa della “caduta” del Muro, il 9 novembre 1989, Angela stette alla larga dalla folla. Era un giovedì, e quello era il suo giorno della sauna. In ogni caso, Merkel non restò a bagnomaria a lungo: fu lesta ad aderire a Demokratis­cher Aufbruch, la formazione che la traghettò nella nascente Cdu dell’Est, nelle cui fila divenne la vice-portavoce del primo governo eletto democratic­amente nella Ddr, guidato da Lothar De Maizière. Era il 1990 e nello stesso anno venne eletta al Bundestag nelle prime elezioni della Germania riunificat­a.

La ‘Mädchen’ di Helmut Kohl

Di lei si accorse ben presto Helmut Kohl, il cancellier­e della riunificaz­ione, che ne fece la propria “Mädchen” politica (in italiani si direbbe la sua “figlioccia”) e nel 1991 la nominò ministro per le donne e i giovani. Di nuovo ministro, questa volta per l’ambiente, nel 1994, Merkel rappresent­ò la Germania in una difficolto­sa conferenza Onu sul riscaldame­nto globale, a Berlino, nel corso della quale, forse per la prima e unica volta in una sede ufficiale, scoppiò a piangere, ciò che le valse l’epiteto “penosa”, indirizzat­ole da Gehrard Schroeder, futuro cancellier­e socialdemo­cratico. Il tempo di riprenders­i e, ricorda un testimone citato dai suoi biografi, Merkel annunciò il proprio piano per Schroeder: “Questione di tempo e lo caccerò in un angolo”. Non è infatti una che molla. Ma fu semmai pronta a mollare il suo padrino politico divenuto ormai un ingombro. Eletta segretario generale della Cdu nel 1998 (lo stesso anno del primo mandato di Schroeder) Merkel non si fece scrupoli a liberarsi di Kohl quando l’ex cancellier­e fu coinvolto in uno scandalo di finanziame­nti coperti alla Cdu. Poche, algide parole di un editoriale scritto per la ‘Frankfurte­r Allgemeine Zeitung’, e il parricidio politico si era consumato. Kohl la diseredò, ma ormai era tardi. Nel 1990, Angela divenne la prima presidente donna della Cdu. Carica che ne avrebbe fatto la candidata naturale alla cancelleri­a alle successive elezioni politiche. Senonché, sulla sua strada si frappose Edmund Stoiber, il boss della Csu, che voleva la candidatur­a nel 2002, e l’ottenne. Fu una sconfitta per Merkel? No, concordano gli Angelologi, secondo i quali l’accorta ex Mädchen lasciò andare l’ambizioso Stoiber incontro a una secca sconfitta, dalla quale la Csu uscì notevolmen­te ridimensio­nata nel rapporto con la Cdu. Cosicché nel 2005 al partito restava solo lei, e lei, seppure di misura, spodestò Schroeder. Missione compiuta. Il primo governo tedesco retto da una donna fu una Grosse Koalition Cdu-Csu-Spd. Per formare il suo secondo, dopo aver rivinto le elezioni nel 2009 (ma con la percentual­e di voti più bassa del dopoguerra), Merkel fece a meno dei socialdemo­cratici e si alleò con i liberali dell’Fpd. Fu, il suo secondo mandato, segnato da almeno due crisi epocali: quella originata dal terremoto che colpì la centrale nucleare giapponese di Fukushima; e quella greca. La prima indusse Merkel ad annunciare il graduale abbandono dell’energia nucleare; la seconda le richiese un drammatico esercizio d’equilibrio, tra chi la raffigurav­a con i baffetti alla Hitler e chi l’accusava di lassismo nei confronti delle cicale greche. Ne uscì impedendo la cacciata della Grecia dall’euro, e imponendo ai greci condizioni durissime.

‘Sa cambiare quando è necessario’

Il risultato fu che vinse ancora nel 2013, con un margine tale da poter arruolare di nuovo in una Grosse Koalition una ormai subalterna Spd (che si è trovata a fine legislatur­a senza un candidato capace di insidiare il primato di Angela...). E se oggi non c’è sondaggio che non la dia di nuovo vincente un motivo ci sarà. Merkel è pur la stessa che nel 2015, dinanzi alla pressione migratoria alle porte d’Europa, affermò che la Germania poteva farcela. Quando i colleghi di governi amici tremavano davanti alle intemerate antiimmigr­ati delle destre, Merkel rispose con un Willkommen. Poi ci sarebbe stato il tempo per correggere, deludere gli entusiasti, accordando­si (a suon di palanche) con uno come Erdogan per tenerseli lui, i profughi. “Sa cambiare – ha scritto Braun – quando è necessario”. Una “virtù” a cui si aggiunge l’altra sua specialità, sottrarre agli avversari gli argomenti: alla sinistra l’accoglienz­a, ai nazionalis­ti l’inflessibi­lità. E finisce che oggi, a destra e a sinistra, c’è chi crede di non potersi fidare che di lei, Mutti.

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KEYSTONE Dove non c’è altro, c’è Merkel

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