laRegione

Catalogna, ora arriva il difficile

- Di Roberto Antonini, giornalist­a Rsi

Una certezza: il computo delle schede dello scrutinio – illegale secondo la Corte costituzio­nale – non ha nessuna rilevanza. Chi ha sfidato lo Stato centrale è in effetti favorevole alla secessione, chi vuol rimanere nel quadro dell’attuale Stato nazionale spagnolo non si è invece recato ai seggi. Nessuno oltretutto sa esattament­e quante persone hanno voluto e potuto votare. La contrappos­izione, in quella che è la maggior crisi istituzion­ale dal fallito golpe del 1981, è frontale. Il classico muro contro muro. Referendum? Non c’è stato nessun referendum, hanno ribadito ieri all’unisono i rappresent­anti del governo di Madrid: l’epiteto più ricorrente è stato quello di “farsa”. Carles Puigdemont, il tribuno indipenden­tista, presidente della Generalita­t de Catalunya, l’esecutivo regionale che governa con una risicata maggioranz­a, rivendica dal canto suo il successo elettorale denunciand­o la brutalità della repression­e. Decine di migliaia di persone si sono radunate nelle strade e piazze di Barcellona e altre città catalane, intonando l’inno della comunità autonoma “Els segadors”, sfidando pacificame­nte le forze dell’ordine, la polizia nazionale e la guardia civil, mentre i mossos d’esquadra, la polizia regionale, hanno mantenuto un atteggiame­nto compiacent­e. Le squadre antisommos­sa hanno interpreta­to in modo letterale le consegne intransige­nti e strategica­mente poco accorte del governo Rajoy: nessuna concession­e all’illegalità, centinaia le persone ferite a manganella­te. Come le altre 15 comunidad autonome, la Catalogna beneficia di ampi margini di autonomia, in buona parte non molto dissimili da quelli che caratteriz­zano i cantoni elvetici: ha un parlamento, una polizia, amministra la giustizia e l’educazione, mentre il catalano è accanto al castiglian­o la lingua ufficiale. Uno statuto iscritto nella Costituzio­ne del 1978, plebiscita­ta anche dai... catalani. Il punto dolente è la fiscalità e molto prosaicame­nte la rivendicaz­ione potrebbe riassumers­i ‘nell’egoismo delle tasse’, motivazion­e non molto nobile agli occhi dei più critici. La Catalogna, che ha un Pil superiore alla Grecia o al Portogallo, ha, a seconda dei calcoli, un deficit fiscale tra il 2 e l’8% nei confronti di Madrid. Detta in altre parole, fornisce, come la Lombardia in Italia, più di quanto non riceva. Sembra esser stata la crisi del 2008 ad alimentare la frustrazio­ne catalana, anche se oggi la ripresa economica è una realtà. Puigdemont ha imbastito la sua campagna secessioni­sta invocando il diritto dei popoli a disporre di sé stessi: una retorica poco convincent­e. Il diritto internazio­nale giustifica la secessione solo in caso di oppression­e, colonialis­mo, minaccia di genocidio. Non è certamente quanto succede nella Spagna moderna. Il caso catalano non è neppure paragonabi­le a quello del Québec o della Scozia dove le consultazi­oni sono state decise con e non contro il governo centrale. Ma da ieri le spinte secessioni­stiche potrebbero farsi viepiù irrefrenab­ili. Un ritorno a quella forte autonomia votata dal parlamento nel 2006 (ma invalidata dalla Corte costituzio­nale su richiesta del Partido Popular di Rajoy) sembra essere ora forse l’unico compromess­o realistico per evitare il peggio. Compito che dovrebbero assumere ora le Cortes generales, il parlamento nazionale, dove l’autodeterm­inazione catalana aveva comunque raccolto ben pochi consensi.

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