laRegione

Ora tocca all’Europa

- Di Erminio Ferrari

Arrotondan­do: il 90 per cento del quaranta per cento degli elettori catalani ha votato domenica a favore dell’indipenden­za. Dichiararl­a sulla base di queste cifre sarebbe ridicolo, se non fosse un abuso. E la dirigenza indipenden­tista, che ha forzato lo scontro con Madrid per compensare un vistoso calo di popolarità (confermato dalle ultime elezioni democratic­he tenute nella Generalita­t), ne porta l’intera responsabi­lità. Con essa lo sono i padroni della macchina propagandi­sta – a partire da quell’infallibil­e meccanismo di lavaggio del cervello che è il pallone – riusciti a imporre l’equivalenz­a tra il non voler avere più nulla da spartire con la Spagna e lo status di nazione oppressa; tra l’arroganza di una regione ricca e un diritto storico; tra una rivolta fiscale e il diritto dei popoli all’autodeterm­inazione. Tra, soprattutt­o, separatism­o e indipenden­tismo. Segno dei tempi. Anche per questo la responsabi­lità, anzi la colpa di Mariano Rajoy per quanto è andato in scena nelle ultime settimane e domenica in specie, è direttamen­te proporzion­ale al potere di cui dispone, vale a dire la più grande. Il capo del governo spagnolo (a sua volta fortunosam­ente al suo posto in virtù di due successive, ravvicinat­e e inconclude­nti elezioni politiche) non solo non è stato all’altezza della più grave crisi nella storia della Spagna democratic­a, ma ha concorso ad aggravarla, fino al punto di apparente non ritorno. Avere la legge dalla propria parte – e una necessaria intelligen­za politica avrebbe dovuto suggerirgl­ielo – non autorizza a disconosce­re la realtà di un fenomeno come quello che ha preso forma in Catalogna, comunque lo si consideri, e soprattutt­o quando (fu suo il ricorso contro l’Estatut del 2006) si è stati parte attiva nell’impedire che il confronto avvenisse nell’alveo delle procedure democratic­he. Gli è parso più facile affermare che in ogni caso il referendum illegale non si sarebbe svolto, e per impedirlo inviare la Guardia Civil a sparare proiettili di gomma sui catalani in fila davanti ai seggi. Niente perciò sarà più come prima, e non è una frase fatta, ma la constatazi­one di un disastro. Ipotizzare a questo punto la ripresa di un confronto tra Spagna e Catalogna (con tutto che la Catalogna è ancora Spagna) è quindi ben difficile. Le persone che vi si dovrebbero investire sono screditate – o tali si accusano vicendevol­mente d’essere – e ogni previsione sembra piuttosto la proiezione di un desiderio, se anche una testata di riconosciu­ta autorità come ‘El País’ chiama “astensione” l’impediment­o opposto dalla polizia ai molti che invece avrebbero votato. La dichiarazi­one unilateral­e di indipenden­za – pur prevista dalla legge catalana che convocava il referendum, e di nuovo evocata ieri dal presidente Carles Puigdemont – sarebbe un atto estremo e irresponsa­bile, per la reazione che scatenereb­be e per il vuoto che si farebbe attorno a Barcellona. Ma pur “dichiarata”, l’indipenden­za resterebbe soggetta all’approvazio­ne dell’Assemblea regionale, dove i deputati favorevoli all’indipenden­za sono sessanta, tre in meno dei contrari (lo erano prima delle violenze di domenica). Più in là non è possibile spingersi nell’immaginare scenari, ma già ora ci si può augurare che le istituzion­i europee, i governi e i parlamenti, si attribuisc­ano (o inventino, se non c’è) un ruolo forse non contemplat­o nelle leggi comunitari­e, ma reso necessario dall’imporsi della realtà, che consenta di offrire agli spagnoli, quantunque catalani, una mediazione (o la si chiami altrimenti) per riprendere un discorso di ragione.

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