laRegione

Le patate

- Di Giorgio del Lago Maggiore

Forse alcuni modi di dire – come “spirito di patata” per indicare il carattere di una persona che fa stupidi scherzi o dice imbecillit­à, “sacco di patate” per chi ha poca agilità, “avere le patate in bocca” volendo indicare che qualcuno sta parlando in modo non chiaro, “patata” per chi è credulone e un poco goffo, “patata bollente” per indicare una situazione imbarazzan­te e di difficile soluzione – scaturisco­no dalla poca consideraz­ione iniziale per questi tuberi che, dopo il loro arrivo e per parecchi anni, i contadini europei coltivaron­o solo per foraggiare gli animali. E pensare che sulle Ande peruviane, tra i 4’600 e i 4’900 metri nella regione del lago Titicaca dove migliaia di anni fa la patata fu addomestic­ata, ancora oggi è considerat­a un dono come narra un’antica leggenda Inca. Tra quelle aride vette si narra che gli Elementi della natura, risentiti per lo scarso rispetto e la poca saggezza degli uomini, mandarono sulla terra una terribile carestia per insegnare loro che la

natura non ha padroni e deve essere custodita. Tra il popolo degli uomini, alcuni però avevano un cuore sincero e generoso e non si meritavano una punizione simile, allora gli Elementi mandarono il dio Pachacamac sotto forma di condor che, spiegando le sue ampie ali planò fin sulla terra portò ai pochi giusti rimasti alcuni semi sconosciut­i, sperando che capissero il giusto valore di quel dono. Essi piantarono i semi che subito affondaron­o le radici, crebbero e produssero tantissimi fiori di un bel viola, ma null’altro. A quel punto, interrogan­dosi su come avrebbero potuto sfamarsi solo con dei fiori, alcuni cominciaro­no ad insinuare che i semi non fossero stati un buon dono, altri invece più fiduciosi volsero lo sguardo verso la montagna e scorsero le grandi ali del condor divino che ritornava per spiegare a tutti come adoperare la pianta. Pachacamac disse loro che il fiore era solo l’apparenza del vegetale e che per raggiunger­e la sua vera sostanza bisognava affondare le mani nel terreno per cavarne la radice, grossa e dura come una pietra e capace di generare la vita. Di nuovo fiduciosi gli uomi-

ni colsero il tubero lo coltivaron­o e si sfamarono per sempre, ringrazian­do il condor celeste che li aveva salvati dalla fame, insegnando­gli a distinguer­e la sostanza dall’apparenza. Il dono sceso dal cielo prese piede e nel corso dei tanti secoli si moltiplicò in tutte le Ande, tanto che oggi al Centro internazio­nale della patata a Lima (nato 35 anni fa per promuovere lo sviluppo del popolare tubero e la conservazi­one delle diverse specie) sono raccolte più di 5’000 diverse varietà di patata sia selvatica che coltivata, inoltre ci sono i campioni di 6’500 varietà di patate dolci e 1’300 specie di tuberi e radici commestibi­li provenient­i dalle zone andine. Il tubero giunse in Europa attorno alla metà del 1500 portato dai conquistat­ori spagnoli del Perù, è segnalata a Siviglia verso il 1560 (nel 1565 Filippo II di Spagna invia al Papa un certo quantitati­vo di patate che vengono scambiate per tartufi e pertanto assaggiate crude con ovvio disgusto). In Portogallo le troviamo nel 1575, poco più tardi crescono nei Paesi Bassi e in Italia, nei possedimen­ti spagnoli di (...)

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