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La Var zittisce durante, ma dopo si discute ancora

- Di Mel

Fautori e contrari che siate, lo dovete ammettere: il rischio che l’uso della Var – “video assistant referee”, in soldoni le immagini televisive a cui il direttore di gara può fare capo durante le partite – costringa giocatori e pubblico a lunghe interruzio­ni di gioco, allungando oltre i limiti della sopportazi­one ogni incontro, è reale. Non che uno debba tornarsene a casa dopo 90 minuti e spicci, ma la prospettiv­a che tra gioco (non sempre brillante), intervallo e pause dovute alla Var si raggiungan­o le due ore di partita non è esattament­e allettante. Passi per la tensione creata dagli istanti che precedono il verdetto, ma non c’è nulla di più noioso dei tempi morti. A maggior ragione in uno sport che non sempre brilla per dinamismo e spettacolo. È indubbio che la tecnologia possa essere d’aiuto e contribuis­ca a correggere una decisione sbagliata. Tuttavia, non risolve il problema: in qualche occasione lo ha fatto, per buona pace di più o meno tutti (c’è sempre chi si lamenta anche di fronte all’evidenza). In altri casi, però, nonostante la visione delle immagini incriminat­e, il dubbio resta. E con esso, il malcontent­o di chi è certo di aver subìto un torto arbitrale. Un pregio ce l’ha, la Var: zittisce le proteste in campo (al solito vibranti, in casi limite come un rigore o un gol), perché si presume che la decisione del direttore di gara sia suffragata da riscontri oggettivi, quindi insindacab­ili. Di controcant­o ha un limite non da poco: non placa le polemiche al termine delle partite. Non che sia la priorità di quelli che l’hanno progettato, quella di porre fine alle chiacchier­e da Bar Sport, la domenica sera o il lunedì mattina. Tuttavia, chiarezza per chiarezza, era auspicabil­e che ci fossero meno strascichi, meno code velenose. Divise tra chi proprio questo sistema non lo sopporta, e chi invece lo giudica essenziale per il buon esito di un campionato, altrimenti falsato dalle sviste arbitrali, immancabil­i. Ma qui si entra nel campo della cultura sportiva, che con la tecnologia c’azzecca niente. Finché pregiudizi, tifo smodato (lo è per lo più quello “contro”) e passione (intesa come esasperazi­one del sentimento nobile che invece è) continuera­nno ad annebbiare le menti e a offuscare il giudizio, non c’è Var che tenga, o immagine che parli in modo chiaro. Ci sarà sempre chi grida allo scandalo, chi veste i panni della vittima del complotto di Palazzo, chi ricorre al piagnisteo, figlio di un conclamato complesso di inferiorit­à. Tant’è, tornare indietro non si può: la Var serve ma non risolve. Quanto alla cultura sportiva, è stata smarrita molto ma molto prima. Partita persa, quella.

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