La vita dentro agli occhi
Dentro ai nostri occhi rimane il deposito fisico di ciò che abbiamo visto nella vita. È visibile allo sguardo esterno. Non tutto quello che abbiamo visto, ma alcune cose. Quelle sì. Nulla a che fare con l’ipotesi che gli occhi siano (possano essere) lo specchio dell’anima. A che fare, piuttosto, con il sospetto che la realtà produca un’impressione, che potremmo definire fotografica (in verità è: biografica) e quindi ritrovabile. Quando parliamo a qualcuno, lo facciamo anche con gli occhi. Affidiamo loro ciò che non riusciamo a dire con le parole, ciò che è inutile dire a parole, oppure ciò che non desideriamo siano le parole a comunicare.
Fatima Bhutto dice: «La forza mi viene dalla consapevolezza che la mia storia non è unica. La mia storia, in fondo, non ha nulla di eccezionale». Questa frase, Fatima l’ha pronunciata quando ci siamo incontrati, insieme ad altre persone, venute a Milano per guardare e presentare documentari al festival «Visioni dal mondo», di cui Fatima è l’ospite d’onore quest’anno. La sera prima, dopo le presentazioni durante le quali i nostri nomi si sono incrociati, ma senza che venisse prestata loro troppa attenzione, anzi nell’accavallamento di altre frasi e di altri saluti, ci siamo ritrovati seduti allo stesso tavolo. La piena consapevolezza di chi fosse quella giovane donna ha preso forma nell’istante in cui la mia domanda, imbarazzante a posteriori («Sei parente di Benazir Bhutto?»), ha innescato il breve riassunto di un albero genealogico dai rami insanguinati. Il nonno di Fatima, Zulfiqar, sua zia Benazir e suo padre Murtaza rivestirono ruoli di primissimo piano nella politica del Pakistan. Tutti e tre furono brutalmente assassinati. Fatima, a trentacinque anni, ha negli occhi il deposito di questa tragica storia familiare. Non la nasconde. Alle parole affida invece ciò che ha deciso di farne: una testimonianza, da consegnare a chi desidera ascoltarla, che si nutre della «consapevolezza» che la sua vita assomiglia, nella violenza che l’ha investita e segnata, a quella di infinite altre persone, in Pakistan come altrove nel mondo. In questo, essa è, nelle parole di Fatima, una storia «che non ha nulla di eccezionale», che costituisce «un’esperienza compiuta anche da altri, prima e dopo di me». Dentro agli occhi c’è anche il coraggio. Ci capita di scorgerlo, a volte. In tutte le sue forme. Fino, addirittura, a percepirne le origini: ciò da cui ha preso forma, le esperienze che ne hanno fatto uno strumento con il quale affrontare la vita. Quasi sempre il coraggio va di pari passo con la modestia. La paura rende superbi. Il coraggio produce una tranquillità che non esclude gli altri. Fatima è una giovane donna coraggiosa, modesta e, si direbbe, in armonia con sé stessa. Vive ancora a Karachi, in Pakistan, e gira il mondo con un passaporto (pachistano) sul quale è riportato il suo luogo di nascita: Kabul. Con i tempi che corrono, non è facile girare il mondo così. «È un incessante dovermi giustificare di fronte agli altri, in aeroporto, quando parlo con qualcuno, quando incontro una persona sconosciuta. Devo spiegare e, in fondo, fornire le garanzie di essere una persona perbene». Fatima ci ride sopra. Torna seria quando spiega che le piacerebbe infinitamente «andare a Kabul, tornarci da donna adulta», visitare l’Afghanistan, magari non tutto, «ma Kabul sì, almeno quella, la città nella quale sono nata». Fa una strana impressione, per chi in Afghanistan ci è stato tante volte, sentirsi chiedere da chi invece ci è nato, di descrivere il Paese, di raccontare Kabul. Fatima dice: «La città deve essere bella anche d’inverno, forse soprattutto in inverno». Kabul è bellissima, sempre e ancora bellissima, nonostante nessuno, dal 2001, abbia voluto davvero ricostruirla. È un po’ come se tutti si fossero accaniti a tenerla in ginocchio, a farla stare peggio. «In inverno Kabul sa del legno di pioppo bruciato nelle stufe», racconto a Fatima, ricordando un lungo soggiorno nel novembre di alcuni anni fa. «La stufetta, nella mia stanza, bruciava senza sosta, cacciando il freddo. Mandava un profumo capace di farmi sentire al sicuro». A Kabul, Fatima non ci può andare, per ragioni di sicurezza. Le sue origini pachistane, l’appartenenza a quella famiglia dal nome così ingombrante glielo impediscono. Forse, osservando i miei occhi, trova il deposito delle tante cose viste in Afghanistan: le parole non servono.
Quando suo padre morì in un attentato, Fatima aveva quattordici anni. Quel giorno l’ha portata a scrivere Canzoni di sangue. Ricordi di una figlia. Più recentemente ha pubblicato L’ombra della luna crescente. Fatima è scrittrice, impegnata, in modo particolare, a fianco delle donne: nel suo Paese, ma non
soltanto. Ovunque le donne subiscano violenza, quella fisica, ma anche quella prodotta da leggi discriminatorie e da politiche oppressive. «Le donne, in Pakistan – spiega Fatima – sono fortissime. Lo sono diventate. Devono esserlo». Le chiedo se non ci sia, nello sguardo che l’Occidente posa sulle donne nella sua società e, più in generale, nelle società musulmane, un vizio di fondo: la tendenza, cioè, a volerle considerare sempre e soltanto vittime. «Certo», risponde Fatima. «L’Oriente e l’Occidente manipolano la questione femminile, e quindi le donne: in modo diverso, si capisce, ma in buona sostanza producendo un risultato simile, quello di condannarle alla prigione del luogo comune». Le chiedo di spiegarsi meglio. «Nella mia cultura, la donna deve affrontare la pressione di chi la vuole controllare e per farlo ricorre a tutti gli strumenti, dalla religione alla politica. La cultura occidentale guarda alle donne nella mia società come vittime da affrancare partendo, sempre, da modelli occidentali». È una questione che sta molto a cuore a Fatima. Il luogo comune espresso dall’Occidente sarebbe quindi fondato in un atteggiamento che rasenta il complesso di superiorità: noi ti possiamo affrancare, a condizione che tu segua i nostri canoni. C’è del vero in quanto racconta Fatima. Fa piacere sentirlo dire, in modo chiaro.
Se chiedi a Fatima che lavoro fa, risponde: «Scrittrice». Oltre a scrivere, incontra migliaia di persone partecipando a conferenze ed eventi in tutto il mondo. Incontra i giovani. Se non parli a quelli, a chi parli? Il mondo, se dovrà cambiare, lo cambieranno loro. Stanno accadendo parecchie cose sotto i nostri occhi. È un po’ come se la Storia avesse deciso di mostrarsi nel suo compiersi. «Pensa a quanti Paesi del mondo sono confrontati con la violenza o con l’oppressione, con una forza esterna oppure interna che schiaccia la gente che ci vive, in quei Paesi». Ci sto pensando, Fatima. Sono molti, alcuni nemmeno li conosco. Altri, invece, sì. Scrivere e raccontare. Servisse a qualcosa. Fatima è convinta che serva. Conosce la violenza, che ha investito la sua famiglia. È nata a Kabul ed è cresciuta a Damasco, in Siria. A quattordici anni ha perso un padre che la portava con sé, ovunque andasse, dopo il divorzio dalla moglie, quando Fatima aveva tre anni. Questo ci conduce a parlare di radici. «Se non le hai, continui a cercarle, forse per tutta la vita», dice. Io penso che le vere radici siano quelle che decidi di mettere da qualche parte, se le metti per davvero. Glielo dico. «Il senso delle radici», risponde Fatima. Le spiego che è un’espressione che avevo utilizzato in un’altra occasione, tempo fa. «Il senso delle radici deriva da qualcosa che ti sei conquistato nella vita», aggiunge lei. Mi chiedo che cosa possa essere questa conquista. Penso alla sua forza, che non puoi non incontrare dentro ai suoi occhi. Alla forza che occorre per crescere dentro una dinastia ingombrante e insanguinata come quella dei Bhutto. E glielo dico. Dice Fatima: «Pensa alla forza che occorre per vivere». Ha ragione.