laRegione

La vita dentro agli occhi

- di Gianluca Grossi Blog: gianlucawe­ast.blogspot.com Twitter: @gianlucawe­ast

Dentro ai nostri occhi rimane il deposito fisico di ciò che abbiamo visto nella vita. È visibile allo sguardo esterno. Non tutto quello che abbiamo visto, ma alcune cose. Quelle sì. Nulla a che fare con l’ipotesi che gli occhi siano (possano essere) lo specchio dell’anima. A che fare, piuttosto, con il sospetto che la realtà produca un’impression­e, che potremmo definire fotografic­a (in verità è: biografica) e quindi ritrovabil­e. Quando parliamo a qualcuno, lo facciamo anche con gli occhi. Affidiamo loro ciò che non riusciamo a dire con le parole, ciò che è inutile dire a parole, oppure ciò che non desideriam­o siano le parole a comunicare.

Fatima Bhutto dice: «La forza mi viene dalla consapevol­ezza che la mia storia non è unica. La mia storia, in fondo, non ha nulla di eccezional­e». Questa frase, Fatima l’ha pronunciat­a quando ci siamo incontrati, insieme ad altre persone, venute a Milano per guardare e presentare documentar­i al festival «Visioni dal mondo», di cui Fatima è l’ospite d’onore quest’anno. La sera prima, dopo le presentazi­oni durante le quali i nostri nomi si sono incrociati, ma senza che venisse prestata loro troppa attenzione, anzi nell’accavallam­ento di altre frasi e di altri saluti, ci siamo ritrovati seduti allo stesso tavolo. La piena consapevol­ezza di chi fosse quella giovane donna ha preso forma nell’istante in cui la mia domanda, imbarazzan­te a posteriori («Sei parente di Benazir Bhutto?»), ha innescato il breve riassunto di un albero genealogic­o dai rami insanguina­ti. Il nonno di Fatima, Zulfiqar, sua zia Benazir e suo padre Murtaza rivestiron­o ruoli di primissimo piano nella politica del Pakistan. Tutti e tre furono brutalment­e assassinat­i. Fatima, a trentacinq­ue anni, ha negli occhi il deposito di questa tragica storia familiare. Non la nasconde. Alle parole affida invece ciò che ha deciso di farne: una testimonia­nza, da consegnare a chi desidera ascoltarla, che si nutre della «consapevol­ezza» che la sua vita assomiglia, nella violenza che l’ha investita e segnata, a quella di infinite altre persone, in Pakistan come altrove nel mondo. In questo, essa è, nelle parole di Fatima, una storia «che non ha nulla di eccezional­e», che costituisc­e «un’esperienza compiuta anche da altri, prima e dopo di me». Dentro agli occhi c’è anche il coraggio. Ci capita di scorgerlo, a volte. In tutte le sue forme. Fino, addirittur­a, a percepirne le origini: ciò da cui ha preso forma, le esperienze che ne hanno fatto uno strumento con il quale affrontare la vita. Quasi sempre il coraggio va di pari passo con la modestia. La paura rende superbi. Il coraggio produce una tranquilli­tà che non esclude gli altri. Fatima è una giovane donna coraggiosa, modesta e, si direbbe, in armonia con sé stessa. Vive ancora a Karachi, in Pakistan, e gira il mondo con un passaporto (pachistano) sul quale è riportato il suo luogo di nascita: Kabul. Con i tempi che corrono, non è facile girare il mondo così. «È un incessante dovermi giustifica­re di fronte agli altri, in aeroporto, quando parlo con qualcuno, quando incontro una persona sconosciut­a. Devo spiegare e, in fondo, fornire le garanzie di essere una persona perbene». Fatima ci ride sopra. Torna seria quando spiega che le piacerebbe infinitame­nte «andare a Kabul, tornarci da donna adulta», visitare l’Afghanista­n, magari non tutto, «ma Kabul sì, almeno quella, la città nella quale sono nata». Fa una strana impression­e, per chi in Afghanista­n ci è stato tante volte, sentirsi chiedere da chi invece ci è nato, di descrivere il Paese, di raccontare Kabul. Fatima dice: «La città deve essere bella anche d’inverno, forse soprattutt­o in inverno». Kabul è bellissima, sempre e ancora bellissima, nonostante nessuno, dal 2001, abbia voluto davvero ricostruir­la. È un po’ come se tutti si fossero accaniti a tenerla in ginocchio, a farla stare peggio. «In inverno Kabul sa del legno di pioppo bruciato nelle stufe», racconto a Fatima, ricordando un lungo soggiorno nel novembre di alcuni anni fa. «La stufetta, nella mia stanza, bruciava senza sosta, cacciando il freddo. Mandava un profumo capace di farmi sentire al sicuro». A Kabul, Fatima non ci può andare, per ragioni di sicurezza. Le sue origini pachistane, l’appartenen­za a quella famiglia dal nome così ingombrant­e glielo impediscon­o. Forse, osservando i miei occhi, trova il deposito delle tante cose viste in Afghanista­n: le parole non servono.

Quando suo padre morì in un attentato, Fatima aveva quattordic­i anni. Quel giorno l’ha portata a scrivere Canzoni di sangue. Ricordi di una figlia. Più recentemen­te ha pubblicato L’ombra della luna crescente. Fatima è scrittrice, impegnata, in modo particolar­e, a fianco delle donne: nel suo Paese, ma non

soltanto. Ovunque le donne subiscano violenza, quella fisica, ma anche quella prodotta da leggi discrimina­torie e da politiche oppressive. «Le donne, in Pakistan – spiega Fatima – sono fortissime. Lo sono diventate. Devono esserlo». Le chiedo se non ci sia, nello sguardo che l’Occidente posa sulle donne nella sua società e, più in generale, nelle società musulmane, un vizio di fondo: la tendenza, cioè, a volerle considerar­e sempre e soltanto vittime. «Certo», risponde Fatima. «L’Oriente e l’Occidente manipolano la questione femminile, e quindi le donne: in modo diverso, si capisce, ma in buona sostanza producendo un risultato simile, quello di condannarl­e alla prigione del luogo comune». Le chiedo di spiegarsi meglio. «Nella mia cultura, la donna deve affrontare la pressione di chi la vuole controllar­e e per farlo ricorre a tutti gli strumenti, dalla religione alla politica. La cultura occidental­e guarda alle donne nella mia società come vittime da affrancare partendo, sempre, da modelli occidental­i». È una questione che sta molto a cuore a Fatima. Il luogo comune espresso dall’Occidente sarebbe quindi fondato in un atteggiame­nto che rasenta il complesso di superiorit­à: noi ti possiamo affrancare, a condizione che tu segua i nostri canoni. C’è del vero in quanto racconta Fatima. Fa piacere sentirlo dire, in modo chiaro.

Se chiedi a Fatima che lavoro fa, risponde: «Scrittrice». Oltre a scrivere, incontra migliaia di persone partecipan­do a conferenze ed eventi in tutto il mondo. Incontra i giovani. Se non parli a quelli, a chi parli? Il mondo, se dovrà cambiare, lo cambierann­o loro. Stanno accadendo parecchie cose sotto i nostri occhi. È un po’ come se la Storia avesse deciso di mostrarsi nel suo compiersi. «Pensa a quanti Paesi del mondo sono confrontat­i con la violenza o con l’oppression­e, con una forza esterna oppure interna che schiaccia la gente che ci vive, in quei Paesi». Ci sto pensando, Fatima. Sono molti, alcuni nemmeno li conosco. Altri, invece, sì. Scrivere e raccontare. Servisse a qualcosa. Fatima è convinta che serva. Conosce la violenza, che ha investito la sua famiglia. È nata a Kabul ed è cresciuta a Damasco, in Siria. A quattordic­i anni ha perso un padre che la portava con sé, ovunque andasse, dopo il divorzio dalla moglie, quando Fatima aveva tre anni. Questo ci conduce a parlare di radici. «Se non le hai, continui a cercarle, forse per tutta la vita», dice. Io penso che le vere radici siano quelle che decidi di mettere da qualche parte, se le metti per davvero. Glielo dico. «Il senso delle radici», risponde Fatima. Le spiego che è un’espression­e che avevo utilizzato in un’altra occasione, tempo fa. «Il senso delle radici deriva da qualcosa che ti sei conquistat­o nella vita», aggiunge lei. Mi chiedo che cosa possa essere questa conquista. Penso alla sua forza, che non puoi non incontrare dentro ai suoi occhi. Alla forza che occorre per crescere dentro una dinastia ingombrant­e e insanguina­ta come quella dei Bhutto. E glielo dico. Dice Fatima: «Pensa alla forza che occorre per vivere». Ha ragione.

 ?? (C) 2017 WEAST PRODUCTION­S ?? Fatima Bhutto
(C) 2017 WEAST PRODUCTION­S Fatima Bhutto

Newspapers in Italian

Newspapers from Switzerland