Alfonso Botti: ‘Serve un passo indietro di tutti’
Il referendum catalano sarà pur stato incostituzionale, ma ignorarne la natura di enorme evento politico (sin da prima che avvenisse) da parte del governo Rajoy è stato un errore clamoroso. L’analisi di Alfonso Botti dell’accelerazione della crisi catalana è chiara: lo si giudichi come si vuole, il separatismo di Barcellona doveva essere affrontato con lungimiranza politica. Ma quando la classe politica (“spagnola” o “catalana” che sia) manca di spessore, non si può pretendere che sia lungimirante. Alfonso Botti, insegna Storia contemporanea e Storia sociale del mondo contemporaneo all’Università di Modena e Reggio Emilia, ha pubblicato parecchi saggi sulla storia e la cultura spagnole, è condirettore della rivista semestrale ‘Spagna contemporanea’ e direttore della collana ‘Ispanistica’ dell’Istituto Salvemini di Torino. Ha risposto alle nostre domande da Bogotà, dove si trova attualmente, quale visiting professor presso l’Universidad Nacional de Colombia.
Il vicolo cieco in cui opposte propagande hanno spinto il confronto ha finito per imporre, nel discorso pubblico locale, l’immagine di una Spagna ancora innervata del retaggio franchista, determinata a vessare una Catalogna democratica e coesa nell’aspirazione indipendentista; o, viceversa, di una Spagna autenticamente democratica alla cui stabilità attenta l’avventurismo separatista. Ogni distinzione annullata, da dove può riprendere un confronto che non sia di scontro civile?
Con Rajoy, come s’è visto, si è schierata anche la Spagna del vecchio nazionalismo franchista, ma sarebbe sbagliato identificare tutta la Spagna con questa posizione che era e resta ultra minoritaria. La linea su cui si sono attestati il governo e la maggioranza degli spagnoli è quella della Costituzione. Il problema è che quella Costituzione e la sua architettura dell’organizzazione territoriale dello Stato non tengono più e occorrerebbe rimetterci pesantemente mano. La Spagna però vive da almeno tre anni una grave crisi del sistema dei partiti, dalla quale ciascuna delle forze in campo (tradizionali come il Pp e il Psoe o nuove come Podemos e Ciudadanos) cerca di uscire tirando la coperta dalla propria parte. Il confronto dovrebbe trasformarsi in dialogo, ma ora come ora non se ne vedono né le premesse, né le condizioni. C’è da augurarsi che le due parti sentano la pressione internazionale tutta orientata verso il dialogo.
Veniamo al ruolo della corona. Juan Carlos, quantomeno, non avallò il sollevamento Tejero ‘salvando’ la democrazia. Felipe viene accusato di essersi ridotto a fare da portavoce del governo. Un ruolo (ammesso che sia ancora di qualche significato nelle democrazie moderne) definitivamente esaurito?
Penso che Felipe VI abbia perso un’occasione. Sarebbe stato un grande gesto politico pronunciare il suo messaggio televisivo del 3 ottobre in catalano, che è una delle lingue ufficiali dello Stato spagnolo (magari con i sottotitoli in castigliano). Invece ha difeso sì la Costituzione, ma allo stesso tempo si è schierato con il governo e con gli spagnoli che condividono la linea di Rajoy. Non ha parlato da capo di Stato di tutti gli spagnoli, ma solo di quelli che della Spagna hanno la stessa idea del governo. E cioè di una Spagna che va bene così, quando è evidente a tanti che così non è. Insomma: almeno un cenno all’esistenza di un serio problema politico che la politica deve risolvere poteva farlo ed è mancato. Di sicuro il repubblicanesimo di tanti spagnoli e della maggioranza dei catalani n’è uscito rafforzato.
Le leadership spagnola e catalana sono all’altezza del tornante storico che si trovano a dover gestire? Mariano Rajoy, artefice politico dell’affossamento della riforma autonomista del 2006, è forte del potere che gli riconosce la Costituzione e di quello che gli assicura il controllo delle forze armate e di polizia; dal 1° ottobre, Carles Puigdemont è forte soprattutto della sventatezza del primo, le immagini degli elettori picchiati dalla Guardia Civili gli sono valse da formidabile spot pubblicitario. Il loro problema è davvero soltanto quello di ‘salvare la faccia’?
La classe politica attuale probabilmente è meno solida e perspicace di quella che gestì la transizione alla democrazia tra il 1976 e il 1978. Di sicuro manca delle capacità di raggiungere compromessi di alto profilo di cui quella diede prova. A mio modo di vedere, però, più che della leadership dovremmo parlare dei limiti di una cultura politica (condivisa dai due maggiori partiti) poco avvezza alla mediazione. Integerrima quando difende, da una parte, la Costituzione, dall’altra, il diritto all’indipendenza, ma assai tollerante sul piano etico, come hanno dimostrato gli scandali che hanno investito sia il partito i Rajoy che quello di Puigdemont.
Una ipotetica riforma federale dello Stato spagnolo, da alcuni indicata come sola via per disinnescare la portata destabilizzante dei nazionalismi, richiederebbe comunque una revisione costituzionale i cui tempi sarebbero ben lunghi. Alla vigilia di una possibile dichiarazione unilaterale di indipendenza, è ancora una ipotesi plausibile?
Credo che mettere mano alla Costituzione in chiave federale sia l’unica possibilità di uscire dalla situazione in cui l’ostinazione degli uni e l’avventurismo degli altri ha gettato il Paese. Essa comunque trova molti ostacoli, non ultimo quello che potrebbe frapporre la Corona, dal momento che una profonda riforma costituzionale potrebbe mettere in discussione anche l’assetto istituzionale, cioè la monarchia. Ma non è questo il problema all’ordine del giorno. Ora serve un passo indietro di tutti. Madrid dovrebbe riconoscere che quello catalano è un problema politico e che per incostituzionale che sia stato il voto dei catalani l’1 ottobre esso è stato anche un grande fenomeno pacifico di disobbedienza civile di massa. Barcellona dovrebbe capire che una dichiarazione di indipendenza sulla scorta di un voto referendario illegale non sarà mai considerata legittima dalla comunità internazionale. Di buon auspicio mi sembrano le posizioni caute espresse in questa direzione dalla sindaca di Barcellona, Ada Colau, e dal leader catalano di Podemos, Xavièr Domènech.