Immaginando Toscani
Intervista al fotografo e autore italiano al quale il m.a.x. museo dedica un’ampia mostra La macchina fotografica? ‘È uno strumento: un fotografo non è uno che scatta immagini, ma un autore che usa le immagini per dire qualcosa di importante’ ha spiegato
‘Immaginare’ non è solo il titolo dell’esposizione inaugurata domenica al m.a.x. museo di Chiasso, ma è anche un efficace riassunto della visione che Oliviero Toscani ha del suo lavoro: «Ci sono fotografi documentatori che girano il mondo con la macchina fotografica davanti alla testa; io invece la metto dietro la testa, immagino e alla fine decido che per mostrare la guerra in Jugoslavia, che all’epoca nessuno voleva vedere, bastano un paio di pantaloni e una camicia piena di sangue» ci racconta, prima dell’inaugurazione della mostra, evocando una delle sue controverse campagne pubblicitarie per Benetton, ovviamente presenti in mostra.
Questa di Chiasso, è stato detto in conferenza stampa, è la prima mostra antologica della sua opera: come mai questa ritrosia?
Perché non sono ancora morto! Di solito ai vivi non viene proposto di fare una mostra così… Ma la Cavadini (Nicoletta Ossanna Cavadini, direttrice del m.a.x. museo, ndr) è incredibile, ed è riuscita a convincermi. Poi, non è esattamente una mostra antologica, l’ordine non è proprio antologico, anche se forse in realtà lo è.
Si riferisce al fatto che la maggior parte delle immagini – oltre ventimila, si è detto – sono proiettate sulle pareti di enormi ‘camere oscure’?
È che non ho avuto molto tempo per fare una selezione definitiva… alcune cose le avrei volute un po’ diversamente: mi sarebbe piaciuto che le persone entrassero dalle fotografie, ma non c’era lo spazio. Comunque non ci si può lamentare sempre: la mostra è fatta e va benissimo così.
Lei è figlio del fotoreporter Fedele Toscani: l’amore per la fotografia lo ha ereditato…
La interrompo subito: non stiamo par- lando di “amore per la fotografia”. Io non sono innamorato della fotografia, per me è come per lei la penna stilografica o il computer: lei è innamorato della sua penna perché fa il giornalista? Per me la fotografia è un mezzo, uno strumento per comunicare. Sono un autore… bisogna iniziare a dirlo chiaramente: quando si parla di uno scrittore, non si pensa a qualcuno che “sa scrivere”, perché tutti sanno scrivere. Si intende un autore, uno che scrive cose che dovrebbero essere interessanti. Lo stesso dovrebbe valere per i fotografi, ma purtroppo non è ancora così: dici “fotografo” e si pensa semplicemente all’azione di fare fotografie! Ma tutti sanno fare fotografie!
Però mi sembra un po’ azzardato affermare che ‘tutti sanno fotografare’…
Ma fotografare è molto più facile di scrivere, di parlare, di dipingere… Se io prendo una macchina fotografica che scatta ogni secondo e la metto sulle orecchie di un asino che lascio correre per le strade di New York, alla sera troverò delle immagini fantastiche, immagini che mai sarei stato capace di scattare… ma chi è il fotografo? L’asino, che aveva la macchina sulla testa, o io che ho deciso di mettergliela sulle orecchie? È una cosa a cui tengo molto: il fotografo è un autore, non è semplicemente quello che scatta le foto!
Tornando a suo padre fotoreporter: possiamo dire che usate la fotografia per lo stesso scopo, raccontare il mondo, o sono due attività completamente diverse?
In fondo sì, ovviamente in un altro modo, e del resto sono anche di un’altra generazione…
Immagino sia per questo che non le piace essere definito ‘un pubblicitario’.
Assolutamente, non so neanche come funziona, la pubblicità, non ne seguo i canoni. Io faccio le mie immagini; poi chiaramente la pubblicità consuma molte immagini, così come anche i giornali e l’editoria…
Però alcune sue campagne hanno fatto la storia della pubblicità.
È chiaro, ma perché la fotografia serve alla pubblicità. In un certo senso, tutto quello che passa attraverso un’immagine è pubblico, è pubblicità. Michelangelo dipingeva la Cappella Sistina per fare pubblicità alla chiesa…
Quindi il messaggio è più importante della bellezza della foto?
Sì, però attenzione: c’è la bellezza e c’è anche la tragedia. Mi spiego: si può fare una bellissima foto di un pezzo di cacca e una bruttissima foto della donna più bella del mondo. Questa è la fotografia: una foto di qualcosa di tragico e di brutto può essere bella.
A proposito di fotografare il tragico e il brutto: non c’è il rischio che usare immagini forti e provocatorie – come quella, ricordata all’inizio, con la camicia insanguinata – sia controproducente, che la polemica che ne segue metta il messaggio in secondo piano?
Ma lei, scusi, perché usa “provocare” con una connotazione negativa? Si può provocare interesse, provocare amore, provocare pace, provocare bellezza… L’arte senza provocazione non serve a niente! Si dibatte, si fa polemica… vuol dire che c’è interesse. Stranamente, delle mie immagini, trent’anni dopo, tutti si ricordano, di altre campagne nessuno si ricorda niente. Provocano, quelle immagini? Ma è perché non vuoi affrontare il problema che lì viene mostrato, come se ti bastasse non guardare la fotografia per non essere responsabile di quello che sta accadendo nel mondo? E poi, se ci si pensa è strano: sono passati trent’anni ma quei problemi lì – razzismo, integrazione, Aids – sono ancora attuali.
Alla mostra sono stati recuperati, dagli archivi della Kunstgewerbeschule di Zurigo, i suoi lavori da studente. Che effetto le ha fatto rivedere quelle immagini?
Son contento che non son diventate gialle… sa, me le sono stampate io, quelle foto!
Ma si riconosce ancora, in quelle immagini?
Sa, ogni immagine appartiene al suo tempo, ed è giusto così. Non sono nostalgico e neanche feticista. Mi piace essere semplicemente un testimone del mio tempo: come, con quale macchina, con quale tecnica, non importa.