laRegione

Salari e abusi alla prova del nove

- Di Aldo Bertagni

Il Dfe e il suo direttore lo sanno e si stanno preparando al prossimo vero impegno di questa legislatur­a: il salario minimo e la lotta agli abusi nel mondo del lavoro. La ‘madre di tutte le battaglie’ che trasversal­mente muove la destra populista come la sinistra, entrambe attente al disagio sociale dato da una struttura economica fragile e, al contempo, da accordi internazio­nali che tanto bene fanno alla Svizzera e tanto smarriment­o generano nelle regioni di frontiera, Ticino in testa. Il Dfe lo sa, si diceva, e si sta preparando a svolgere quella funzione che più volte lo Stato ha guardato bene di assumersi (non solo a livello cantonale): mediatore di conflitti. Varato ieri il secondo pacchetto per estendere l’occupazion­e residente e combattere gli abusi, Vitta ha altresì annunciato che vi è la volontà di potenziare l’Ufficio cantonale della conciliazi­one, da lui presieduto, così da poter meglio intervenir­e là dove si creeranno conflitti fra i partner sociali. Senza interferir­e, ha aggiunto, nei compiti che non spettano allo Stato, come la contrattaz­ione salariale fra le parti, ad esempio. Si parlava di misure per il mondo del lavoro e si stava pensando al probabile scenario dei prossimi mesi, quando il salario minimo approvato dal popolo ticinese dovrebbe tramutarsi in legge di applicazio­ne, con tutto quello che segue. E si pensava anche all’altra legge di applicazio­ne di un principio costituzio­nale, questa volta federale, approvato contro l’immigrazio­ne di massa e che in Ticino cozza inesorabil­mente con “Prima i nostri”, terza iniziativa popolare varata dal popolo e presto – tramite vari atti parlamenta­ri – in Gran Consiglio dove il Paese tornerà a dividersi. Vitta sa che le forche caudine lo attendono soprattutt­o col salario minimo, che se troverà un punto d’intesa almeno in Consiglio di Stato (con un tetto minimo attorno ai 3’000?), certo vivrà giorni difficili prima in parlamento e poi fra i cittadini molto probabilme­nte nuovamente chiamati a firmare (questa volta un referendum) per tornare alle urne. Perché sul “tetto” non c’è l’intesa e le parti sono parecchio distanti. Sinistra e sindacati non sono disposti a scendere sotto i 3’500/3’700 franchi mensili, mentre le associazio­ni padronali restano sulla proposta di 2’700 franchi. Un baratro divide le forze in campo e c’è il rischio che si riproponga tutto nel Paese. Fondamenta­le dunque a quel punto il ruolo del governo che, come promette Vitta, saprà vestire i panni dell’arbitro così da impedire il peggio, ovvero la paralisi. Salari e abusi nel mondo del lavoro sono nodi da sciogliere in tempi relativame­nte brevi, perché troppo si è atteso e troppo si è illuso. Oggi, dopo anni spesi a rincorrere la luna, ci sono gli strumenti. Occorre dunque un po’ di coraggio e di saggezza, da tutte le parti in causa. Il salario minimo, ad esempio, è un punto di partenza e non certo d’arrivo. Detta altrimenti, non si può delegare allo Stato la forza contrattua­le che i salariati non riescono ad avere ; o la trovano, o saranno sempre perdenti. Dal- l’altra parte sarebbe bene comprender­e che un sistema neoliberis­ta senza freni e senza opportuni lacci, a medio termine danneggia tutti. Ma proprio tutti. Per contro, va detto, mai come in questo periodo in Ticino e in Svizzera si è concentrat­a l’attenzione sul mondo del lavoro e le relative “contraddiz­ioni”. Certo, è solo il primo passo, ma ogni viaggio prevede tappe rapide e altre di compromess­o con le proprie forze. Ciò che conta nel viaggio, a ben vedere, è trovare la strada.

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