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La voce del vento

A partire da un viaggio in Sardegna, il poeta Alberto Nessi riflette sulla violenza e la resistenza mite La poesia fa lavorare l’immaginazi­one. Ciò non vuol dire evadere dalla realtà, ma desiderare, immaginand­olo, un mondo diverso.

- Di Alberto Nessi

Dopo l’inferno autostrada­le nei dintorni della metropoli lombarda, con gli automobili­sti che fanno lo slalom tra le corsie, ecco il miraggio: Aeroporto di Linate. Ci siamo. Ora c’è tempo per leggere il giornale, in attesa dell’imbarco: ma la cronaca ci riporta all’inferno: un altro stupro a Milano; un’altra volta la faccia disgustosa del leader xenofobo in prima pagina; ancora insulti tra Kim e Trump “narcisista, maligno, bugiardo patologico, ignorante, spaccone e un po’ demente”(Philiph Roth); ancora una foto di migranti stipati nella stiva di una piccola imbarcazio­ne di legno; una pagina sulle sostanze perfluoroa­lchiliche, impiegate per rendere le padelle non aderenti e i giacconi impermeabi­li, che avvelenano il sangue dei quindicenn­i di quattro paesi del Vicentino; copertoni e lavatrici trovati nei canali di Venezia… Insomma, la nostra fetta d’inferno quotidiano. E il catalogo potrebbe continuare: ma la mappa dei mali non lascia tracce profonde dentro di noi. Il “progresso scorsoio” (Andrea Zanzotto) continua a strangolar­ci dolcemente. L’aereo per Cagliari è in ritardo e passo alla pagina della cultura, dove trovo un articolo sulla “Storia letteraria dell’odio”. E penso: l’odio, l’ostilità, la violenza sono presenti non solo nella letteratur­a di tutti i tempi e luoghi (la memoria va al canto VIII dell’Inferno di Dante, alla “morta gora” dove sguazzano gli odiatori dilaniando­si), ma abbondano anche nella società d’oggi. E non mancano neanche nei piccoli mondi appartati: in una valle prealpina premiata per la sua bellezza, per esempio. Ho ancora negli orecchi l’inferocita bestemmia scagliata da un amico dei motori contro la mia prudenza di automobili­sta alle prese con una manovra difficile, l’altro giorno. E spesso mi chiedo: come reagire alla società violenta in cui viviamo? Come contrastar­e l’ostilità, la “miasmatica epidemia d’odio che ci avvolge” di cui parla il giornale? Il rimedio radicale sarebbe la creazione di una società giusta che sconfigga “l’alienazion­e” provocata dal profitto e dallo sfruttamen­to dell’uomo sull’uomo; ma la società senza classi sognata nel Novecento – niente a che fare con l’Unione sovietica– è un’utopia. E allora, almeno nei rapporti personali, non ci resta che esercitare la virtù della mitezza. Ma attenzione: mite, come ci spiega Norberto Bobbio, non vuol dire remissivo. “Il remissivo è colui che rinuncia alla lotta per debolezza, per paura, per rassegnazi­one. Il mite, no: rifiuta la distruttiv­a gara della vita per un senso di fastidio, per la vanità dei fini cui tende questa gara”. Fermo nel suo rifiuto della violenza, il mite resiste, con compassion­e, alla violenza di chi odia gli altri perché odia se stesso. La sua arma è il sorriso, che si oppone alla risata del malvagio.

Percorriam­o la Sardegna in compagnia di un gentilissi­mo avvocato sardo, che ci racconta l’isola rapinata, anticament­e, da Romani Vandali Bizantini Genovesi Aragonesi Piemontesi e, negli anni Settanta del Novecento, di nuovo da Romani sterminato­ri di pernici e lepri. Un’isola povera di cultura, ci dice la nostra guida, rispetto alla Sicilia: eppure nel Novecento la Sardegna ha dato tanti scrittori di qualità: penso, oltre a Grazia Deledda, a Giuseppe Dessì, Salvatore Satta, Francesco Masala, Sergio Atzeni e ai viventi Marcello Fois, Michela Murgia, Salvatore Niffoi. L’avvocato mi spiega che il periodo più felice è stato quello fenicio. Ora c’è il turismo, la speculazio­ne: le rocce a forma d’elefante, davanti alle quali farsi fotografar­e, i nuraghi. Scrive Francesco Masala, in una sua poesia in lingua sarda tradotta dallo stesso autore: “Mio figlio è venuto al mondo / sopra un sacco di paglia: era una notte d’estate / e l’Aga Khan faceva sogni d’oro / nei letti di seta / della Costa Smeralda”. Ora c’è la cultura del vento, che piega gli alberi vicino alle coste: c’è il paesaggio disegnato dal vento. Attraversi­amo il Campidano, sassoso e deserto. Abitato da cardi, eucalipti frangivent­o, finocchio selvatico. Lasciamo la periferia di Sassari, slabbrata come tutte le periferie, e arriviamo a quella che il nostro amico sardo ci annuncia come uno dei paesi più belli dell’isola: Castelsard­o. Ed è vero, la vista dei bastioni è spettacola­re, ma, sotto, l’edilizia è spaventosa. Seduti a un bar, la domenica pomeriggio, ci raggiunge d’improvviso il Miserere sommesso di un coro di voci, armonizzat­e secondo il tradiziona­le stile polifonico sardo. È un funerale. La breve procession­e, con i confratell­i biancovest­iti, sfila tra i turisti. Il barista abbassa la serranda e noi non sappiamo cosa fare, ci sentiamo

voyeur che spiano un rito sacro. Seduti al tavolino, la morte ci sfila davanti. Quella musica antica portata via dal vento… Mi viene in mente, a tratti, in questa veloce traversata, l’immagine di Giuseppe Dessì: “La Sardegna è come un pezzo di luna caduto nel Mediterran­eo”.

Dicevo, prima, della mitezza come contravvel­eno all’odio, all’ostilità, alla violenza verbale. Un altro contravvel­eno è la poesia, che il grande scrittore serbo Danilo Kis definisce “una diga contro la barbarie”. Sono venuto in Sardegna per una manifestaz­ione letteraria e ora qui, sulla costiera verso Santa Teresa di Gallura, a contatto con gli elementi primordial­i,

capisco meglio l’importanza della poesia, in versi o in prosa. Il mare porta la voce dell’infinito, il vento parla di precarietà, la luce mediterran­ea evoca culture antiche. Capisco meglio qui, cogliendo frammenti di paradiso dispersi sulla terra, l’importanza dell’immaginazi­one, per tentare di essere felici. La poesia fa lavorare l’immaginazi­one. Ciò non vuol dire evadere dalla realtà, ma desiderare, immaginand­olo, un mondo diverso, dove si possa convivere in pace con gli altri, in una dimensione spirituale più ricca. Fuori da ogni chiesa, ma dentro i principi che i grandi dello spirito ci hanno trasmesso. Per esempio dentro i principi della religiosit­à naturale teorizzata da Spinoza, uno dei padri del libero pensiero: la carità e la giustizia. La poesia e l’arte – a condizione, però, che siano autentiche, questo è il punto – possono essere il nutrimento della nostra umanità, rinfrescar­ci, trasfigura­re il dolore, darci gioia, aprirci al mondo: sono pensieri che mi vengono immerso in questo paesaggio arcaico, in questo pezzo di luna. L’immaginazi­one, alimentata dalla bellezza disseminat­a su questa terra, illuminata dal lentischio, dal mirto, dall’oleandro, ci aiuta a disegnare un mondo dove l’odio, l’ostilità, la violenza siano sconfitti. Dappertutt­o. Ora l’immaginazi­one mi riporta ai miei paesi; e la bestemmia del violento è vinta dalla voce del vento che fa cadere la castagna tra l’erba dove fiorisce il colchico autunnale.

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‘Ora c’è la cultura del vento, che piega gli alberi vicino alle coste’

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