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Insegnamen­ti del ‘Lunedì nero’

Un Lunedì nero oggi significhe­rebbe un crollo di 5’100 punti dell’indice Dow Jones di Wall Street. Sarebbe l’equivalent­e dei 508 punti – ovvero il 22,6% – persi dall’indice più famoso della Borsa americana 30 anni fa, in quel 19 ottobre 1987 passato alla

- Di Maria Teresa Cometto

Quel giorno è rimasto tuttora il peggiore di sempre per Wall Street. Durante il crac del 1929, infatti, la perdita più grave in un giorno era stata ‘solo’ del 13%. Ricordare quel record negativo mentre le quotazioni sono in rialzo da oltre otto anni e viaggiano attorno ai massimi storici, fa venire i brividi agli investitor­i e gestori e fa sorgere spontanea la domanda se qualcosa di simile possa di nuovo avvenire. Se il passato insegna qualcosa, la risposta è sì. Ma il passato insegna anche che chi non si fosse fatto prendere dal panico e fosse rimasto investito a Wall Street, nel breve-medio termine avrebbe recuperato le perdite, perché dopo meno di due anni il Dow Jones è tornato al livello pre-crac, e dal terzo anno in poi i guadagni si sarebbero accumulati, fino ad arrivare a quasi il mille per cento di performanc­e per chi avesse mantenuto fino ad oggi un investimen­to legato alla Borsa ameriversi­ty. cana, per esempio con il fondo indicizzat­o Vanguard 500. Analisti, storici e regolatori continuano comunque a discutere sui motivi che scatenaron­o il Lunedì Nero per capire come prevenire un nuovo shock. I nuovi “titani e i loro giocattoli di trading” sono i primi colpevoli secondo la giornalist­a finanziari­a americana Diana Henriques, che ha appena pubblicato il libro “Una catastrofe di prima classe” (A First-Class Catastroph­e), dove racconta le ore frenetiche del Black Monday e spiega come ci si è arrivati. I “titani” sono i grandi investitor­i istituzion­ali che nella seconda metà degli anni Ottanta sono diventati dominanti sul mercato finanziari­o, fino ad allora movimentat­o invece soprattutt­o dai singoli. I loro ‘giocattoli’ sono gli strumenti di trading e i contratti derivati sempre più sofisticat­i. In particolar­e sarebbe da biasimare una nuova tecnica, molto popolare in quella fase: la ‘assicurazi­one del portafogli­o’ (portfolio insurance), che prometteva di limitare le perdite vendendo futures quando il mercato cade. Messa in pratica con i programmi di trading al computer, e contempora­neamente da tutti gli investitor­i istituzion­ali, invece di frenare le perdite questa ‘assicurazi­one’ le fece velocement­e precipitar­e.

Allarme sui rischi dei programmi di trading

Contro i rischi dei programmi di trading aveva suonato l’allarme il presidente di allora del New York stock exchange, John Phelan, in una intervista del marzo 1987: “A un certo punto avremo una catastrofe di prima classe”, aveva detto, notando il loro contributo all’aumento del volume e della volatilità degli scambi (da lì ha preso il titolo il libro della Herniques).

Motivi struttural­i del crollo

Ma c’erano anche motivi struttural­i che avrebbero potuto far presagire un crollo. “La Borsa era in rialzo da cinque anni e le valutazion­i erano elevate: il rapporto prezzo/utili delle azioni era sopra 20 mentre i tassi di interesse erano molto alti, sopra il 10%”, fa notare Burton Malkiel, l’economista all’Università di Princeton autore del best seller “A zonzo per Wall Street”. L’analista Elaine Garzarelli, che all’epoca lavorava per Shearson Lehman Brothers, l’aveva detto pubblicame­nte alcune settimane prima del Lunedì nero: secondo lei il mercato era sopravvalu­tato del 35% e aveva il presentime­nto che qualcosa di brutto sarebbe successo. L’avvertimen­to, che le è costato la fama di Cassandra di Wall Street, era basato sullo studio “quantitati­vo” di una serie di indicatori sul ciclo economico, la massa monetaria, i prezzi del mercato e l’umore degli investitor­i. Proprio sulla psicologia degli investitor­i attira l’attenzione lo storico della finanza Eugene White della Rutgers Uni- “Nel 1987 la gente era sicura che non poteva succedere un altro 1929” – spiega White –, perché pensava che le nuove regole stabilite negli anni Trenta avevano reso ‘sicuro’ il mercato e perché da decenni la Borsa era relativame­nte placida. Le ulteriori regole imposte dopo la crisi finanziari­a del 2008 possono oggi indurre la stessa illusione di sicurezza, avverte White, secondo cui invece un crac severo come quello del 1987 può facilmente accadere di nuovo. Una eredità del Lunedì nero che ha rivoluzion­ato il mercato è stata la nascita degli Etf, Exchange traded fund, gli ibridi fondi-azioni che rappresent­ano interi panieri di azioni. “Studiando quello che era successo, la Sec (Securities and exchange commission, l’autorità americana di controllo sulla Borsa) si rese conto che mancava uno strumento che forse avrebbe aiutato ad alleviare il trauma del 19 ottobre – spiega John Prestbo, ex manager degli indici Dow Jones, ora consulente di MarketGrad­er capital –: mancava un singolo titolo che rappresent­asse il mercato, diverso dai contratti di futures”. Con la benedizion­e della Sec, quasi cinque anni dopo è nato così il primo Etf, l’Spdr S&P 500, lanciato da State street global advisor. Oggi ce ne sono 3’500 nel mondo di Etf con un patrimonio totale di 3’200 miliardi di dollari. Ma non è chiaro se il loro uso per il trading avrebbe un effetto positivo durante una nuova ondata di panico.

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