laRegione

Un muro attorno

- Di Erminio Ferrari

Il 10 ottobre scorso, il Parlamento di Barcellona “non dichiarò” l’indipenden­za, ma lo farà se il governo spagnolo deciderà di applicare l’articolo 155 della Costituzio­ne, che consente di sospendere l’autonomia catalana. Ed è probabile che vada così, dopo che Carles Puigdemont ha risposto con queste parole “definitive” all’ultimatum imposto da Mariano Rajoy. Viene il momento, in talune contese, in cui le ragioni delle parti che le disputano si subordinan­o (o piuttosto soccombono) infine ai fatti, alla irrimediab­ile meccanica azione-reazione. Ed è a questo punto che si trova il confronto tra separatist­i e Stato spagnolo: per ponderati che potranno essere, i prossimi passi dei contendent­i conteranno ormai soltanto per ciò che produrrann­o, e non per la fondatezza o la condivisib­ilità della loro ispirazion­e. Era probabilme­nte ciò a cui puntava la dirigenza separatist­a catalana, non si può dire ora con quale avvedutezz­a. Ed era forse il calcolo di Rajoy, apparentem­ente più interessat­o a ottenere la resa dell’avversario che a confrontar­si sul terreno in cui la sua propaganda ha messo radici. Bisognerà ripetere ancora una volta che – vista da qui – la Catalogna non è un Kurdistan, non il Kosovo pre-indipenden­za, ma una delle regioni più prospere d’Europa, con una propria assemblea legislativ­a, una propria polizia, i cui cittadini parlano, se vogliono, la propria lingua a casa, a scuola, nelle sedi ufficiali. Non abbastanza, tuttavia, per non far sentire meno della metà dei sui abitanti (anche grazie a una decennale pedagogia identitari­a) un popolo oppresso. Ma anche non abbastanza perché possiamo accettare acriticame­nte che lo sia. Tuttavia, ricondurre la vicenda di una collettivi­tà a una esclusiva questione di ordine pubblico o di legalità costituzio­nale è stato un errore capitale, una colpa, di Mariano Rajoy, che ha preteso di negare non soltanto la legittimit­à, ma l’esistenza stessa di ciò che stava avvenendo sotto i suoi occhi, salvo non assumerne l’onere. Così, adesso, ovunque si volga lo sguardo – ha scritto il filosofo catalano Josep Ramoneda – si vede un muro. Il più che probabile avvio della procedura di applicazio­ne del 155 indurrà la dirigenza separatist­a (quella non finita in carcere) a puntare su una sollevazio­ne della piazza. E hai un bel dire che si tratterà di un appello gandhiano. Un dire cinico, piuttosto: ogni movimento di fondazione di una sovranità sa bene che niente ne solidifica il mito quanto un “martirio”. Questo non significa che Puigdemont e i suoi lo stiano cercando, ma che lo abbiano messo in conto è certo. Diversamen­te – citiamo ancora Ramoneda – non si spieghereb­be la continua ricerca di “soluzioni fantasiose per prolungare il gioco”. Gioco che tuttavia avrà vita breve. Lo Stato spagnolo dispone di forza sufficient­e a fermare il processo di secessione. La utilizzerà e, se le cariche di polizia alle urne del primo di ottobre valgono da precedente, lo farà senza ritegno. Rajoy vincerà, e il risentimen­to separatist­a troverà, di nuovo, nella propria sconfitta il terreno più fecondo per tornare a crescere.

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