Sul relativismo
L’affermazione di un diritto implica sempre il riconoscimento di un certo insieme di valori.
Segue dalla Prima Indirettamente, essa corrisponde anche a un potente rivelatore di comportamenti disvalorizzanti. Traccia cioè un confine tra ciò che per una comunità è fonte di valorizzazione e ciò che agisce invece in senso contrario. Tuttavia, “valore” e “disvalore” non sono indicatori assoluti, tanto è vero che ciò che da qualcuno è avvertito come un disvalore, per esempio mandare le proprie figlie a scuola, dare la mano alla maestra, oppure sottrarsi a una congiunzione matrimoniale coatta, col tempo può persino mutarsi in una forza capace di affermare un diritto/dovere, e quindi in un diverso sistema di valori. Solo per dire che le cose sono sempre più complicate di quanto non appaia a prima vista.
I diritti fondamentali mettono in gioco qualcosa in più
Quando si parla di diritti fondamentali, come nel caso dei cosiddetti diritti umani, allora occorre però osservare come essi non si esauriscano nei valori. Vi è qualcosa in questa categoria di diritti che sopravanza la realtà dei valori; qualcosa che parla in favore di una validità superiore. Come i valori, anch’essi sono un prodotto storico, ma nel momento in cui si affermano, proprio in quel momento preciso, acquistano una legittimità molto diversa. Voglio dire che i diritti fondamentali mettono in gioco qualcosa di più. Qualcosa che, pur emergendo dall’intreccio tra poteri e interessi, riesce alla fine a staccarsi dalla propria contingenza contestuale. Se ne distanzia, riuscendo così ad assumere un carattere necessitante. È il caso appunto di tutti quei diritti che, una volta riconosciuti in quanto vettori d’incremento della dignità umana, acquistano un’ideale validità incondizionata. Vale allora in questo senso la considerazione secondo cui vi è effettivamente una tendenza nelle innovazioni assiologiche capaci di rafforzare la dignità umana: quella di essere socialmente selezionate. Ciò non comporta affatto l’idea del progresso morale.
Il punto di non ritorno
Noi non siamo diventati migliori né dopo che a Versailles, nell’agosto del 1789, l’Assemblea Nazionale ha definito in diciassette articoli i diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo e del cittadino; né dopo l’approvazione (1948) della Dichiarazione Universale dei Diritti umani, da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La loro universalità risiede allora nel fatto di rappresentare un punto di non ritorno. Ed è proprio qui che s’infrangono, a mio modo di vedere, i diversi relativismi culturali in voga oggi. È ovvio che usanze diverse producano costumi diversi, valorizzazioni diverse della virtù. Nelle vicende umane, esistono tuttavia dei fattori d’irreversibilità, proprio come esistono nella conoscenza scientifica. Sono appunto quelle acquisizioni che rappresentano una svolta, dopodiché non si torna più indietro.
Ribaltamento capace
di universalizzare
Proprio questa irreversibilità è la ragione per cui oggi siamo così sensibili alla violenza e alla prevaricazione. Non a caso, l’indignazione nei confronti della violazione dei diritti umani coinvolge popoli diversissimi, al punto che la resistenza a queste violazioni è sovente un fatto più interno ai paesi interessati che non esterno. Se tutto ciò accade, è perché indipendentemente dai diversi e contraddittori meccanismi sociali di valorizzazione del comportamento, il riconoscimento dei diritti umani ha definito un ribaltamento nel modo in cui pensiamo a noi stessi. Un ribaltamento capace di universalizzare, cioè di rendere riconoscibili, i fattori che definiscono l’esistenza nella sua massima esperibilità, nella sua più efficacie effettuazione, nella sua più estesa capacità di divenire. Se questa consapevolezza non ha purtroppo un’incidenza diretta sulla volontà, ce l’ha però sulla nostra capacità di stigmatizzare e condannare (con quali effetti è un altro discorso) i crimini e le violazioni. Cioè di indignarci per comportamenti che nel passato sarebbero stati accolti come assolutamente normali. Purtroppo, l’indignazione non è un’arma sufficiente, anche perché a volte è solo una voce flebile della nostra coscienza. Lo vediamo bene nel caso dei fenomeni di neo-schiavismo. Alludo a tutte quelle forme odierne di organizzazione spietata del lavoro, che fanno leva sulla sottrazione della libertà. È, ad esempio, lo schiavismo cui sono sottoposti gli immigrati del Qatar, dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, dell’Oman, ai quali viene sottratta qualsiasi libertà di movimento tramite il ritiro del passaporto (succede anche per altri contesti più vicini a noi). E come se non bastasse, in alcuni casi questa forma di neo-schiavismo prende addirittura arbitrariamente il nome di kafala. Un’istituzione prevista dal diritto islamico riferita all’affidamento dei minori senza famiglia. Qui, però, il termine designa la prassi di rilasciare visti per l’immigrazione vincolati al diritto dei datori di lavoro di impedire alla manodopera l’abbandono dell’attività per tutta la durata del contratto. Permettendo inoltre alle autorità locali di arrestare e ricondurre al lavoro chi violasse la clausola. C’è forse di peggio.
Il paradosso: noi utilizzatori finali
Il paradosso sta nel fatto che proprio noi, con la nostra vigile e fiera indignazione, siamo sovente gli utilizzatori finali dei servizi o dei beni resi disponibili in questo modo, come accadrà con le infrastrutture della World Cup del 2022. Del resto, non è proprio quanto avviene mentre ammiriamo soddisfatti i dispositivi elettronici portatili che fanno bella mostra di sé nei nostri ambienti quotidiani? Ne andiamo fieri, anche perché la loro innovazione si riverbera su di noi. Vediamo però solo questo lato della cosa. Sarebbe forse troppo doloroso riconoscere la brutale realtà dei processi di estrazione mineraria della columbite, un minerale metallico fondamentale per l’industria dell’high-tech. Sono processi che implicano dinamiche socialmente conflittuali e distruttive; dinamiche di una violenza inimmaginabile, i cui effetti sull’ambiente naturale, umano e sociale risultano così catastrofici da essere stati definiti come le esternalità insanguinate e maledette dell’elettronica. Innovazione e regressione convivono qui in un modo che dovrebbe farci riflettere. Soprattutto quando ci entusiasmiamo un po’ troppo infantilmente per l’ultimo modello dell’iPhone (è cronaca di questi giorni, ma ormai di tutti i giorni) o per l’ultima applicazione giunta sul mercato. Alla “triste scienza” di cui parlava Carlyle, per definire l’economia, si affianca oggi una triste estetica che porta alla ribalta la violazione dei diritti umani sotto una luce nuova.