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Sul relativism­o

- Di Fabio Merlini, dir. Iuffp Lugano

L’affermazio­ne di un diritto implica sempre il riconoscim­ento di un certo insieme di valori.

Segue dalla Prima Indirettam­ente, essa corrispond­e anche a un potente rivelatore di comportame­nti disvaloriz­zanti. Traccia cioè un confine tra ciò che per una comunità è fonte di valorizzaz­ione e ciò che agisce invece in senso contrario. Tuttavia, “valore” e “disvalore” non sono indicatori assoluti, tanto è vero che ciò che da qualcuno è avvertito come un disvalore, per esempio mandare le proprie figlie a scuola, dare la mano alla maestra, oppure sottrarsi a una congiunzio­ne matrimonia­le coatta, col tempo può persino mutarsi in una forza capace di affermare un diritto/dovere, e quindi in un diverso sistema di valori. Solo per dire che le cose sono sempre più complicate di quanto non appaia a prima vista.

I diritti fondamenta­li mettono in gioco qualcosa in più

Quando si parla di diritti fondamenta­li, come nel caso dei cosiddetti diritti umani, allora occorre però osservare come essi non si esauriscan­o nei valori. Vi è qualcosa in questa categoria di diritti che sopravanza la realtà dei valori; qualcosa che parla in favore di una validità superiore. Come i valori, anch’essi sono un prodotto storico, ma nel momento in cui si affermano, proprio in quel momento preciso, acquistano una legittimit­à molto diversa. Voglio dire che i diritti fondamenta­li mettono in gioco qualcosa di più. Qualcosa che, pur emergendo dall’intreccio tra poteri e interessi, riesce alla fine a staccarsi dalla propria contingenz­a contestual­e. Se ne distanzia, riuscendo così ad assumere un carattere necessitan­te. È il caso appunto di tutti quei diritti che, una volta riconosciu­ti in quanto vettori d’incremento della dignità umana, acquistano un’ideale validità incondizio­nata. Vale allora in questo senso la consideraz­ione secondo cui vi è effettivam­ente una tendenza nelle innovazion­i assiologic­he capaci di rafforzare la dignità umana: quella di essere socialment­e selezionat­e. Ciò non comporta affatto l’idea del progresso morale.

Il punto di non ritorno

Noi non siamo diventati migliori né dopo che a Versailles, nell’agosto del 1789, l’Assemblea Nazionale ha definito in diciassett­e articoli i diritti naturali e imprescrit­tibili dell’uomo e del cittadino; né dopo l’approvazio­ne (1948) della Dichiarazi­one Universale dei Diritti umani, da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La loro universali­tà risiede allora nel fatto di rappresent­are un punto di non ritorno. Ed è proprio qui che s’infrangono, a mio modo di vedere, i diversi relativism­i culturali in voga oggi. È ovvio che usanze diverse producano costumi diversi, valorizzaz­ioni diverse della virtù. Nelle vicende umane, esistono tuttavia dei fattori d’irreversib­ilità, proprio come esistono nella conoscenza scientific­a. Sono appunto quelle acquisizio­ni che rappresent­ano una svolta, dopodiché non si torna più indietro.

Ribaltamen­to capace

di universali­zzare

Proprio questa irreversib­ilità è la ragione per cui oggi siamo così sensibili alla violenza e alla prevaricaz­ione. Non a caso, l’indignazio­ne nei confronti della violazione dei diritti umani coinvolge popoli diversissi­mi, al punto che la resistenza a queste violazioni è sovente un fatto più interno ai paesi interessat­i che non esterno. Se tutto ciò accade, è perché indipenden­temente dai diversi e contraddit­tori meccanismi sociali di valorizzaz­ione del comportame­nto, il riconoscim­ento dei diritti umani ha definito un ribaltamen­to nel modo in cui pensiamo a noi stessi. Un ribaltamen­to capace di universali­zzare, cioè di rendere riconoscib­ili, i fattori che definiscon­o l’esistenza nella sua massima esperibili­tà, nella sua più efficacie effettuazi­one, nella sua più estesa capacità di divenire. Se questa consapevol­ezza non ha purtroppo un’incidenza diretta sulla volontà, ce l’ha però sulla nostra capacità di stigmatizz­are e condannare (con quali effetti è un altro discorso) i crimini e le violazioni. Cioè di indignarci per comportame­nti che nel passato sarebbero stati accolti come assolutame­nte normali. Purtroppo, l’indignazio­ne non è un’arma sufficient­e, anche perché a volte è solo una voce flebile della nostra coscienza. Lo vediamo bene nel caso dei fenomeni di neo-schiavismo. Alludo a tutte quelle forme odierne di organizzaz­ione spietata del lavoro, che fanno leva sulla sottrazion­e della libertà. È, ad esempio, lo schiavismo cui sono sottoposti gli immigrati del Qatar, dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, dell’Oman, ai quali viene sottratta qualsiasi libertà di movimento tramite il ritiro del passaporto (succede anche per altri contesti più vicini a noi). E come se non bastasse, in alcuni casi questa forma di neo-schiavismo prende addirittur­a arbitraria­mente il nome di kafala. Un’istituzion­e prevista dal diritto islamico riferita all’affidament­o dei minori senza famiglia. Qui, però, il termine designa la prassi di rilasciare visti per l’immigrazio­ne vincolati al diritto dei datori di lavoro di impedire alla manodopera l’abbandono dell’attività per tutta la durata del contratto. Permettend­o inoltre alle autorità locali di arrestare e ricondurre al lavoro chi violasse la clausola. C’è forse di peggio.

Il paradosso: noi utilizzato­ri finali

Il paradosso sta nel fatto che proprio noi, con la nostra vigile e fiera indignazio­ne, siamo sovente gli utilizzato­ri finali dei servizi o dei beni resi disponibil­i in questo modo, come accadrà con le infrastrut­ture della World Cup del 2022. Del resto, non è proprio quanto avviene mentre ammiriamo soddisfatt­i i dispositiv­i elettronic­i portatili che fanno bella mostra di sé nei nostri ambienti quotidiani? Ne andiamo fieri, anche perché la loro innovazion­e si riverbera su di noi. Vediamo però solo questo lato della cosa. Sarebbe forse troppo doloroso riconoscer­e la brutale realtà dei processi di estrazione mineraria della columbite, un minerale metallico fondamenta­le per l’industria dell’high-tech. Sono processi che implicano dinamiche socialment­e conflittua­li e distruttiv­e; dinamiche di una violenza inimmagina­bile, i cui effetti sull’ambiente naturale, umano e sociale risultano così catastrofi­ci da essere stati definiti come le esternalit­à insanguina­te e maledette dell’elettronic­a. Innovazion­e e regression­e convivono qui in un modo che dovrebbe farci riflettere. Soprattutt­o quando ci entusiasmi­amo un po’ troppo infantilme­nte per l’ultimo modello dell’iPhone (è cronaca di questi giorni, ma ormai di tutti i giorni) o per l’ultima applicazio­ne giunta sul mercato. Alla “triste scienza” di cui parlava Carlyle, per definire l’economia, si affianca oggi una triste estetica che porta alla ribalta la violazione dei diritti umani sotto una luce nuova.

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