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La norma dell’italiano

Intervista a Claudio Marazzini, ieri a Bellinzona per i cento anni del Segretaria­to di lingua italiana Il presidente dell’Accademia della Crusca ha discusso della questione della lingua tra Italia e Svizzera, dall’eccesso di burocratis­mi alla necessità di

- Di Ivo Silvestro

L’istituzion­e, nel 1917, del Segretaria­to di lingua italiana della Confederaz­ione – divenuto poi Divisione italiana dei Servizi linguistic­i centrali della Cancelleri­a federale – segna l’inizio di un nuovo corso per l’italiano nella Berna federale. Un evento che viene ricordato con un libro presentato ieri a Bellinzona con la presenza, tra gli altri, del presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini.

Professor Marazzini, di solito tendiamo a considerar­e l’italiano la cenerentol­a linguistic­a svizzera, eppure nel suo intervento ha parlato di un quadro normativo elvetico positivo per l’italiano, addirittur­a migliore di quello in Italia…

Esatto: il quadro normativo è molto avanzato. Poi la cenerentol­a c’è, lo so bene anch’io che se vado a visitare un museo a Basilea le didascalie delle opere le trovo scritte in tedesco, in inglese e magari in francese, ma certamente non in italiano. Ma il bello è che si può scrivere a Nicoletta Mariolini (delegata federale al plurilingu­ismo, ndr) per protestare… È vero che l’effetto non è immediato, ma l’idea è che chi protesta ha un buon diritto per farlo.

Un altro vantaggio dell’italiano in Svizzera, ha spiegato, è il continuo confronto con le traduzioni…

Esatto, perché questo produce sempre una lingua più snella. L’italiano ha infatti una carica retorica legata alla sua storia: è una lingua che si è stabilizza­ta e ha avuto le sue regole fondamenta­li alla fine dell’umanesimo e con il rinascimen­to. E si porta dietro questa matrice di “impopolari­tà”: fino all’unità d’Italia non è mai stata una lingua di popolo, ma solo di letterati.

Il confronto con una lingua straniera riduce quindi la retorica?

Sì e questo accade anche quando scriviamo direttamen­te in una lingua che non è la nostra: se ad esempio scriviamo un saggio per una rivista straniera, ci accorgiamo che intere frasi cadono. L’operazione dei traduttori della Confederaz­ione è ovviamente al contrario: partono da un testo in tedesco o in francese per arrivare all’italiano, ma il risultato è lo stesso, perché la carica retorica di queste lingue è minore.

Questa leggerezza è utile soprattutt­o per i testi normativi, insomma per l’italiano della burocrazia…

Esattament­e. Per l’italiano burocratic­o significa perdere i latinismi, perdere i cultismi, utilizzare parole facili. Poi ovviamente l’impiego di parole facili non deve portare a un testo che triplica di lunghezza e scoraggia il lettore.

In questo, diceva, l’italiano in Svizzera potrebbe essere un modello per l’italiano in Europa.

L’italiano, nei confronti delle istituzion­i europee, è come l’italiano in Svizzera nei

confronti della Confederaz­ione: una minoranza con dei diritti che non sempre è facile far valere. Probabilme­nte dovremmo imparare a fare maggiormen­te quello che fanno gli svizzeri italiani: insistere nel chiedere il rispetto dei nostri diritti.

Nel suo intervento ha anche parlato di competenza passiva. Che cosa intende?

Avere una competenza passiva vuol dire che, ad esempio, non imparo a parlare il tedesco, però imparo a capirlo. È molto importante svilupparl­a, perché quando ci si incontra ognuno dei due interlocut­ori può parlare nella propria lingua, mantenendo­ne la creatività e la spontaneit­à e senza bisogno di ricorrere a una terza lingua, che in genere è l’inglese.

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TI-PRESS Il confronto con altre lingue ‘produce sempre un italiano più snello’

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