Denuncia il tuo porco
La grande cantante Barbara aveva consegnato il suo profondo dolore al suo brano capolavoro (L’aigle noir): quell’aquila nera che nella celebre canzone appare squarciando il cielo è l’immagine terribile dell’incesto subito quando ancora era ragazzina. La storia delle violenze e delle molestie sessuali è molto difficile da percepire nella sua realtà ed evoluzione: tabù, pregiudizi, paure, ipocrisie, silenzi, definizione spesso complessa dei confini comportamentali nel rapporto tra i sessi. Quanto succede in questi giorni ha l’aspetto di una svolta radicale. La valanga sembra inarrestabile, la diga del silenzio travolta da centinaia di migliaia di testimonianze. La denuncia si è fatta globale e la liberazione della parola, tradizionalmente codificata dalle regole e dal costume, tracima sconfinando in un’inedita crudezza. Il caso del produttore-predatore hollywoodiano Harvey Weinstein è stato il detonatore. L’appello a denunciare molestie e aggressioni lanciato sui social dall’attrice Alyssa Milano ha fatto da battistrada: dopo il suo hashtag (aggregatore tematico su Twitter) #metoo, altri hanno immediatamente seguito: dall’italiano #quellavoltache, allo spagnolo #mivozcuenta, fino al brutale #balancetonporc (qualcosa tra il denuncia e lo sputtana il tuo porco) che in Francia ha aperto polemiche spaccando l’opinione pubblica. A sfoderare le spade migliaia di donne, a cominciare da Marlène Schiappa segretaria di Stato all’uguaglianza di genere. La misura è colma, a estremi mali, estremi rimedi. Su Twitter piovono testimonianze indignate di molestie e violenze, denunce velenose a volte corredate con tanto di identità del presunto “porco”. A opporsi non solo chi si schermisce dietro il classico ruvido maschilismo. Catherine Deneuve ad esempio insorge e denuncia un’operazione ignobile. In molti stigmatizzano l’“isterica delazione”. Per gli avversari, la giustizia 2.0 dei social non ha nulla a che vedere con la giustizia vera: spalanca le porte a regolamenti di conti, vendette, falsità. Il rischio è quello di sconfinare in quella che l’antropologo René Girard definiva la rivalità mimetica: la vittima diventa a modo suo, carnefice. La simbologia cristiana vede nel porco l’incarnazione della lussuria e del diavolo (Baalzebub nel Levitico). Per l’Islam e l’Ebraismo il porco è totale tabù. Lo spostamento semantico è discutibile perché sottrae la questione a una visione razionale (vi è un aggressore, categoria giuridica) e ponderata. Con il rischio di avviare una guerra dei sessi che minerebbe l’armonia di genere, come la chiama il filosofo Alain Fienkielkraut, facendo retrocedere i rapporti di genere che negli anni hanno conosciuto una positiva seppur insufficiente evoluzione. Eppure, con tutti i rischi che comportano queste iniziative, la massiccia adesione (60mila a #balancetonporc e mezzo milione a #metoo) ci dice che non stiamo assistendo unicamente a una caccia all’uomo (che sarebbe comunque, è bene ricordarlo, speculare a una caccia alla donna). Quasi tutte le donne agiscono a viso scoperto, tante storie raccontano di umiliazioni sul posto di lavoro, insopportabili pressioni, mani allungate, ripetute allusioni salaci, ricatti professionali. Esprimono un reale bisogno, che non ha potuto manifestarsi nelle fredde aule dei commissariati o nel silenzio ipocrita degli spettatori, siano essi colleghi, amici o parenti.
*giornalista Rsi