Nozze fra vecchio-nuovo mondo
Le chiavi le terremo ancora in tasca, o in un cassetto di casa, perché magari l’auto la vogliamo prestare (e perché comunque non si sa mai). Ma a noi, e ai nostri familiari, non serviranno più: la portiera si aprirà con il riconoscimento vocale, oppure co
Però abbondiamo in sicurezza: meglio aggiungere – a prova di ladri e di hacker – il riconoscimento facciale. Il sensore ci vede, pesca in memoria, ci sistema volante, sedile, specchietti, temperatura e, già che c’è, sintonizza la radio sulla nostra stazione preferita. Soprattutto, ci tiene letteralmente d’occhio: un segno pur involontario di stanchezza, uno sbadiglio, una smorfia di banale malessere e una voce ci avvertirà, mentre un chip passerà alla guida autonoma, un nostro comando (sempre vocale) chiederà al pilota virtuale di accostare, o di rimettersi a riposo perché era un falso allarme, oppure di portarci direttamente a casa perché sì, in effetti siamo molto stanchi. E affamati, anche.
L’app dall’auto al frigo di casa
Però non ci ricordiamo se in frigo è rimasto qualcosa. No problem: sarà un’app, a dirci se ci aspetta un deprimente vuoto ed è il caso di fare la spesa. Senza deviare verso il supermercato: un tasto, la lista parte, il servizio di consegne a domicilio scatta. Quanto al ‘pieno’ che pensavamo di fare, visto che l’ex spia del carburante lampeggia minacciosamente, c’è sempre la colonnina di quartiere. Una spina, pochi minuti, autonomia ripristinata. Sembra un mondo fantastico (e forse non lo è, non del tutto). Sembra anche fantascienza. Ma di sicuro non lo è: qualcosa è già realtà, qualcos’altro lo si è cominciato a vedere sotto forma di prototipi ai saloni internazionali, tutto è al primo posto nella Ricerca & Sviluppo dei gruppi automotive, dei colossi della componentistica, dei giganti digital-new-sharing economy. In definitiva, però, questa è l’unica cosa sicura: si gioca, qui, sul terreno della mobilità, la rivoluzione industriale prossima ventura; è qui che esploderà
la più grande disruption del XXI secolo, che darà l’impronta all’intera economia e ne cambierà paradigmi e modelli.
Cosa è scontato (e cosa no)
Sappiamo anche quali saranno i campi di gara: guida autonoma, mobilità condivisa, connettività, motorizzazioni green.
Questa è l’unica cosa sicura: si gioca, qui, sul terreno della mobilità, la rivoluzione industriale prossima ventura; è qui che esploderà la più grande disruption del XXI secolo, che darà l’impronta all’intera economia e ne cambierà paradigmi e modelli
Ciò che non sappiamo è tutto il resto. Quale sia la ricetta giusta, per esempio, e chi abbia più chance di arrivarci per primo. Se i costruttori tradizionali o i ben più potenti (quanto a mezzi, almeno) signori degli imperi digitali (da Google, che macina investimenti e alleanze, ad Apple, che invece ha tirato un po’ il freno). Se i newcomer visionari alla Elon Musk, che con Tesla ha anticipato tutti ma continua a perdere montagne di soldi, oppure chi accetterà e soprattutto centrerà i matrimoni vecchio-nuovo mondo.
La corsa alle alleanze
Sembra quest’ultima, la strada. Non fosse altro per i giganteschi investimenti che la disruption richiederà: almeno 70 miliardi di dollari, secondo un report di McKinsey, un livello che «nessun player, da solo, può coprire». Eppure non è scontato. La corsa alle alleanze c’è, e il modello virtuoso può essere il patto attraverso cui Bmw-Fca-Intel-Mobileye (per ora: il consorzio è aperto) uniscono i punti di forza per centrare l’obiettivo ‘self driving’ entro il 2021. Però tra i costruttori resiste anche una feroce difesa della sovranità: General Motors, per dire, rivendica la corsa ‘in proprio’ alla leadership nell’auto autonoma, e ai test di Google-Chrysler o di Tesla risponderà, presto, con i primi tentativi per le strade di New York. Potrebbe anche aver ragione Mary Barra, chi lo sa. Ed è vero che il gruppo Usa, con Toyota e Volkswagen (nonostante i costi del dieselgate), ha dimensioni e spalle abbastanza forti per pensare da sé ai propri investimenti. Quelli tradizionali, però. L’orgogliosa proclamazione di indipendenza di Mrs. Gm rischia di scricchiolare di fronte ad altri numeri: se quel report di McKinsey vede giusto, il passaggio dalle vecchie alle nuove piattaforme per una gamma sufficientemente ampia di modelli non solo full autonomy, ma anche elettrici o ibridi, potrebbe costare ai costruttori almeno 10 miliardi di dollari l’anno per i prossimi cinque anni.
Futuro elettrico: non scontato
Eccolo, a questo punto, il vero, grande punto di domanda. Il futuro ‘self’ – l’intelligenza artificial – è scontato. Non lo è del tutto, invece, quello elettrico. Sì, ormai anche i super scettici come Sergio Marchionne si sono convertiti e ammettono che l’era del tutto-benzina o tuttodiesel è finita. La strada però non è breve, e nemmeno facile. Il proliferare di annunci che promettono il contrario maschera, spesso, pure operazioni di marketing. Dietro, la realtà rimane questa: se in tutto il mondo si vendono ancora solo 695mila auto elettriche su un mercato totale di 84 milioni (dati 2016, fonte Citytech; altri, come il Politecnico di Milano, si spingono fino a quasi 800mila), e se le stazioni di ricarica latitano quasi ovunque, è perché le batterie restano carissime. Quando Marchionne racconta che su ogni 500 green vendute in America (dove è obbligato ad averle in listino) perde 20mila dollari, non lo fa per giustificare i ritardi Fca e, soprattutto, non cita una cifra a spanne. Ventimila (euro, per di più) è l’assegno-incentivi concesso a chi compra elettrico dal Paese con il più alto tasso d’acquisto. È così che la virtuosa Norvegia è arrivata al 29% del mercato. Non esattamente un dettaglio secondario.