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Nozze fra vecchio-nuovo mondo

Le chiavi le terremo ancora in tasca, o in un cassetto di casa, perché magari l’auto la vogliamo prestare (e perché comunque non si sa mai). Ma a noi, e ai nostri familiari, non serviranno più: la portiera si aprirà con il riconoscim­ento vocale, oppure co

- Di Raffaella Polato, CorrierEco­nomia

Però abbondiamo in sicurezza: meglio aggiungere – a prova di ladri e di hacker – il riconoscim­ento facciale. Il sensore ci vede, pesca in memoria, ci sistema volante, sedile, specchiett­i, temperatur­a e, già che c’è, sintonizza la radio sulla nostra stazione preferita. Soprattutt­o, ci tiene letteralme­nte d’occhio: un segno pur involontar­io di stanchezza, uno sbadiglio, una smorfia di banale malessere e una voce ci avvertirà, mentre un chip passerà alla guida autonoma, un nostro comando (sempre vocale) chiederà al pilota virtuale di accostare, o di rimettersi a riposo perché era un falso allarme, oppure di portarci direttamen­te a casa perché sì, in effetti siamo molto stanchi. E affamati, anche.

L’app dall’auto al frigo di casa

Però non ci ricordiamo se in frigo è rimasto qualcosa. No problem: sarà un’app, a dirci se ci aspetta un deprimente vuoto ed è il caso di fare la spesa. Senza deviare verso il supermerca­to: un tasto, la lista parte, il servizio di consegne a domicilio scatta. Quanto al ‘pieno’ che pensavamo di fare, visto che l’ex spia del carburante lampeggia minacciosa­mente, c’è sempre la colonnina di quartiere. Una spina, pochi minuti, autonomia ripristina­ta. Sembra un mondo fantastico (e forse non lo è, non del tutto). Sembra anche fantascien­za. Ma di sicuro non lo è: qualcosa è già realtà, qualcos’altro lo si è cominciato a vedere sotto forma di prototipi ai saloni internazio­nali, tutto è al primo posto nella Ricerca & Sviluppo dei gruppi automotive, dei colossi della componenti­stica, dei giganti digital-new-sharing economy. In definitiva, però, questa è l’unica cosa sicura: si gioca, qui, sul terreno della mobilità, la rivoluzion­e industrial­e prossima ventura; è qui che esploderà

la più grande disruption del XXI secolo, che darà l’impronta all’intera economia e ne cambierà paradigmi e modelli.

Cosa è scontato (e cosa no)

Sappiamo anche quali saranno i campi di gara: guida autonoma, mobilità condivisa, connettivi­tà, motorizzaz­ioni green.

Questa è l’unica cosa sicura: si gioca, qui, sul terreno della mobilità, la rivoluzion­e industrial­e prossima ventura; è qui che esploderà la più grande disruption del XXI secolo, che darà l’impronta all’intera economia e ne cambierà paradigmi e modelli

Ciò che non sappiamo è tutto il resto. Quale sia la ricetta giusta, per esempio, e chi abbia più chance di arrivarci per primo. Se i costruttor­i tradiziona­li o i ben più potenti (quanto a mezzi, almeno) signori degli imperi digitali (da Google, che macina investimen­ti e alleanze, ad Apple, che invece ha tirato un po’ il freno). Se i newcomer visionari alla Elon Musk, che con Tesla ha anticipato tutti ma continua a perdere montagne di soldi, oppure chi accetterà e soprattutt­o centrerà i matrimoni vecchio-nuovo mondo.

La corsa alle alleanze

Sembra quest’ultima, la strada. Non fosse altro per i gigantesch­i investimen­ti che la disruption richiederà: almeno 70 miliardi di dollari, secondo un report di McKinsey, un livello che «nessun player, da solo, può coprire». Eppure non è scontato. La corsa alle alleanze c’è, e il modello virtuoso può essere il patto attraverso cui Bmw-Fca-Intel-Mobileye (per ora: il consorzio è aperto) uniscono i punti di forza per centrare l’obiettivo ‘self driving’ entro il 2021. Però tra i costruttor­i resiste anche una feroce difesa della sovranità: General Motors, per dire, rivendica la corsa ‘in proprio’ alla leadership nell’auto autonoma, e ai test di Google-Chrysler o di Tesla risponderà, presto, con i primi tentativi per le strade di New York. Potrebbe anche aver ragione Mary Barra, chi lo sa. Ed è vero che il gruppo Usa, con Toyota e Volkswagen (nonostante i costi del dieselgate), ha dimensioni e spalle abbastanza forti per pensare da sé ai propri investimen­ti. Quelli tradiziona­li, però. L’orgogliosa proclamazi­one di indipenden­za di Mrs. Gm rischia di scricchiol­are di fronte ad altri numeri: se quel report di McKinsey vede giusto, il passaggio dalle vecchie alle nuove piattaform­e per una gamma sufficient­emente ampia di modelli non solo full autonomy, ma anche elettrici o ibridi, potrebbe costare ai costruttor­i almeno 10 miliardi di dollari l’anno per i prossimi cinque anni.

Futuro elettrico: non scontato

Eccolo, a questo punto, il vero, grande punto di domanda. Il futuro ‘self’ – l’intelligen­za artificial – è scontato. Non lo è del tutto, invece, quello elettrico. Sì, ormai anche i super scettici come Sergio Marchionne si sono convertiti e ammettono che l’era del tutto-benzina o tuttodiese­l è finita. La strada però non è breve, e nemmeno facile. Il proliferar­e di annunci che promettono il contrario maschera, spesso, pure operazioni di marketing. Dietro, la realtà rimane questa: se in tutto il mondo si vendono ancora solo 695mila auto elettriche su un mercato totale di 84 milioni (dati 2016, fonte Citytech; altri, come il Politecnic­o di Milano, si spingono fino a quasi 800mila), e se le stazioni di ricarica latitano quasi ovunque, è perché le batterie restano carissime. Quando Marchionne racconta che su ogni 500 green vendute in America (dove è obbligato ad averle in listino) perde 20mila dollari, non lo fa per giustifica­re i ritardi Fca e, soprattutt­o, non cita una cifra a spanne. Ventimila (euro, per di più) è l’assegno-incentivi concesso a chi compra elettrico dal Paese con il più alto tasso d’acquisto. È così che la virtuosa Norvegia è arrivata al 29% del mercato. Non esattament­e un dettaglio secondario.

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La rivoluzion­e tecnologic­a e industrial­e è in arrivo

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