Timori per un’inflazione bassa
Banchieri centrali come il capo della Bce Mario Draghi e organismi un tempo arcigni guardiani del rigore come il Fondo monetario (Fmi), che invocano un aumento dei salari. Governi che in materia monetaria si mostrano più ‘falchi’ dei loro istituti di emis
Washington – Succedono cose strane in questo scorcio del 2017. Nonostante un clima economico rasserenato da un’espansione mondiale che, secondo l’Fmi, raggiungerà il 3,7 per cento quest’anno e il 3,8 nel 2018, rimane una certa inquietudine di fondo. C’è il timore che, prima o poi, possa ripetersi una crisi sistemica come quella del 2008, ma a suscitare malessere nell’immediato è soprattutto l’inflazione che, nonostante tutti gli interventi espansivi, rimane molto sotto il livello (almeno il 2 per cento) necessario per avere una crescita che si sostenga da sola.
C’è il timore che possa ripetersi una crisi sistemica come quella del 2008, ma a suscitare ora malessere è soprattutto l’inflazione che, nonostante gli interventi espansivi, rimane molto sotto il livello necessario per avere una crescita che si sostenga da sola
Non è un problema da poco perché, se un’inflazione alta come quelle del passato surriscalda le economie, una prossima allo zero le gela, costringendo le autorità monetarie a protrarre le manovre straordinarie (tassi bassissimi, acquisto massiccio di titoli e altro ancora) che già sono andate avanti per troppi anni e che, alla lunga, possono provocare squilibri gravi nei sistemi economici oltre che nei bilanci delle banche centrali, cresciuti a dismisura. “Senza inflazione è difficile avere crescita salariale e se gli stipendi non aumentano è difficile avere stabilità politica” sintetizza Adam Posen, presidente del Peterson Institute, il principale centro di ricerche di economia internazionale di Washington, un esperto americano di politiche economiche e monetarie con un passato di banchiere centrale presso la Bank of England. Nei giorni scorsi, durante i lavori dell’Assemblea annuale dell’Fmi dove si è discusso molto di crescita e inflazione, Posen ha organizzato nel suo istituto un confronto su questi temi tra banchieri centrali e non (Draghi, Ben Bernanke, Lael Brainard, Bob Rubin, Phillipp Hildebrand) ed economisti puri (Olivier Blanchard, Raghuram Rajan, Carmen Reinhart) o con esperienze di governo come l’ex ministro del Tesoro Usa Larry Summers o Jason Furman. La sensazione è che i banchieri centrali a cui tutti devono gratitudine per aver salvato il mondo dalla depressione negli anni bui con le loro misure monetarie d’emergenza, siano oggi in difficoltà, con le mani legate: quasi dei santi chiusi in gabbia. Per salvare il mondo hanno sparato quasi tutte le loro cartucce e ora, con i tassi ancora bassissimi o addirittura negativi e le casse zeppe dei titoli pubblici e privati acquistati per anni, sanno di avere margini d’intervento molto ridotti in caso di nuove crisi. Ma, soprattutto, non riescono a venire a capo del nodo dell’inflazione che non si comporta nel modo previsto dalle teorie economiche. C’è chi, come il capo della Bank of England, Mark Carney, ritiene che sia solo questione di tempo: lo ‘shock’ della crisi del 2008 ha spaventato e condizionato i comportamenti degli operatori economici più a lungo del previsto. Molti altri pensano, invece, che i banchieri stiano usando schemi obsoleti per interpretare una realtà economica che è molto cambiata: sull’inflazione pesano l’invecchiamento della popolazione, l’eccessiva propensione al risparmio per proteggersi da crisi future, la globalizzazione che diluisce tutti i fenomeni su una scala planetaria, il commercio elettronico che abbassa i costi e tutte le altre innovazioni tecnologiche che modificano i percorsi classici dell’economia. Draghi tira dritto: lancia l’allarme per un’inflazione pericolosamente bassa (in Europa, all’1,5%, ancor più bassa che negli Stati Uniti e con la prospettiva di ulteriori cali futuri per effetto della prevista debolezza dei prezzi dell’energia e del cibo), ma difende tutte le misure adottate in questi anni. A cominciare dal ricorso ai tassi negativi che, ha detto al Peterson Institute, si sono rivelati efficaci e privi dei temuti effetti negativi sui bilanci delle banche.
C’è anche chi, come il capo della Federal Reserve, Janet Yellen, pur orgogliosa dei risultati ottenuti, riconosce che forse oggi ai banchieri centrali potrebbero mancare strumenti interpretativi aggiornati ed efficaci
Ma c’è anche chi, come il capo della Federal Reserve, Janet Yellen, pur orgogliosa dei risultati ottenuti, riconosce che forse oggi ai banchieri centrali potrebbero mancare strumenti interpretativi aggiornati ed efficaci. Il problema va oltre la capacità di questi istituti di interpretare la realtà. Anche se a parole tutti continuano a invocare l’indipendenza delle banche centrali, è proprio questa autonomia che sembra essere oggi a rischio. Mentre in Europa la Bce è protetta dal suo statuto, in America la Fed ha tutti i suoi capi di nomina presidenziale: non solo Donald Trump deve decidere sul successore di Janet Yellen, ormai a fine mandato (l’ha incontrata la settimana scorsa per verificare la possibilità di una sua riconferma). Il presidente miliardario ha una possibilità quasi senza precedenti di riplasmare l’intero vertice della banca centrale Usa (organismo che decide a maggioranza) visto che, oltre alla Yellen, Trump dovrà rimpiazzare il vicepresidente Stanley Fischer, dimissionario, e tre degli altri sette membri del ‘board’. C’è attesa per le nomine, ovviamente, ma in un certo senso la metamorfosi dei ‘sacerdoti delle monete’ è già in atto: un tempo venerati come semidei, i banchieri centrali sono tornati ad essere comuni mortali. La loro autonomia era considerata sacra perché dovevano avere le mani libere da ogni interferenza politica per combattere l’inflazione. Ma se l’inflazione non c’è più anche quell’indipendenza viene vista come meno indispensabile. E se loro non riescono a rianimare i prezzi, forse tocca di nuovo ai governi con gli strumenti della politica economica. Inaccettabile mettere in discussione un principio fondamentale con la scusa di un’esigenza congiunturale, obietta l’ex capo della Fed Ben Bernanke che invita piuttosto a concentrarsi sulla ricorstruzione dell’arsenale delle banche centrali in vista di crisi future e propone l’uso di strumenti tecnici diversi per cercare di far risalire l’inflazione oltre il 2 per cento. È l’uomo che ha salvato l’America da una depressione come quella degli anni Trenta del secolo scorso, ma la sua sortita non scalda più di tanto la platea economica del Peterson, con Stanley Fischer che si limita a una “proposta non priva di senso”.