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‘Non abbiate paura dei bambini’

Pressati dalle aspettativ­e sociali, fra genitori spaventati e docenti che non appassiona­no, i giovani cercano una motivazion­e. Il consiglio? ‘Parlate con loro, fin da quando sono bambini...’.

- Di Claudio Lo Russo

‘La famiglia è sempre più disgregata, accudisce i bambini ma non parla con loro’ è il monito del filosofo Umberto Galimberti in difesa dei giovani ‘privati del loro futuro’.

Filosofo, antropolog­o, già professore di psicologia generale e dinamica, membro dell’Internatio­nal Associatio­n for Analytical Psychology, divulgator­e, riassumere in poche righe il profilo intellettu­ale, le pubblicazi­oni, i riconoscim­enti e le vicissitud­ini di Umberto Galimberti sarebbe cosa ardua. Lo abbiamo incontrato qualche giorno fa a Locarno, dov’è stato ospite della Clinica Santa Croce per un convegno sul tema ‘I giovani nell’età del nichilismo’. Proprio ai giovani dieci anni fa ha dedicato ‘L’ospite inquietant­e. Il nichilismo e i giovani’ (Feltrinell­i). Ma a loro si è rivolto fin dagli inizi della sua carriera, quando era un professore liceale di filosofia e, ci ha confidato con emozione, una sua alunna si è smarrita nella schizofren­ia, fino a gettarsi nel Lambro.

Perché, nonostante la sua disillusio­ne verso il nostro tempo, lei oggi investe ancora energia per occuparsi di giovani?

Perché il futuro biologicam­ente è loro, ma culturalme­nte glielo abbiamo fregato. Per loro l’avvenire è diventato imprevedib­ile, quindi non retroagisc­e come motivazion­e: perché devo studiare, perché devo impegnarmi? Io considero che i giovani rappresent­ano il massimo della potenza biologica, il massimo della potenza sessuale (però non procreativ­a, perché la nostra società non glielo concede) e il massimo della potenza ideativa (Einstein a 24 anni aveva ideato la sua formula, Mozart a 17 anni componeva e suonava davanti a papi e duchi, l’inventore di Google ha cominciato da ragazzo in un garage); ma viviamo in una società suicida, che si disinteres­sa di loro. Come si può fare a meno della potenza biologica, sessuale e ideativa?

Spiegare l’umano o comprender­lo: che cosa cambia?

È una distinzion­e che deriva da Karl Jaspers, il più grande psicopatol­ogo che io ho conosciuto. La psichiatri­a mi spiega tutte le malattie e le sindromi psichiche, ma per comprender­e ci vuole una dote naturale, l’empatia, cioè la capacità di

andare a catturare il nucleo della follia. Così scopri che tutte le sue manifestaz­ioni rispondono a quel nucleo come a un teorema geometrico. Ma questo vale anche per le persone “sane”: se io catturo la tua visione del mondo, ti ho capito, ho capito la simbolica sottesa a ciò che tu dici. Questa è la comprensio­ne.

I giovani fanno paura agli adulti?

Agli adulti sì, hanno addirittur­a paura a parlare con loro. Ma non parlano con loro neanche quando dovrebbero farlo, cioè dalla nascita ai 12 anni, quando le loro parole sarebbero efficaci. Dopo non si può più parlare con i ragazzi, se non quando loro ti aprono la porta. E a quel punto i genitori sono spaventati. Quando un bambino ti fa vedere i suoi pasticci, non gli devi dire “domani”, che poi significa “mai”; se no gli stai dicendo che non ha fatto niente di interessan­te e alla fine lui non farà più niente.

Gli adolescent­i vengono caricati di troppe pressioni e aspettativ­e sociali, senza che siano prima stati educati alla frustrazio­ne?

A queste pressioni vengono sottoposti appena nati, già da bambini devono andare a scuola, fare uno sport, imparare a sciare, a nuotare, a suonare... Troppa roba. Quando hai un eccesso di stimoli per la tua capacità di contenimen­to, o vai in angoscia oppure abbassi la tua percezione psichica, diventi psico-apatico e non reagisci più. E non capisci più la differenza fra il bene e il male, non c’è più differenza fra corteggiar­e una ragazza e stuprarla. Questa apatia è molto diffusa oggi tra i ragazzi.

In Svizzera il tasso di suicidi giovanili è fra i più alti al mondo ma si tende a non parlarne: è un errore?

Secondo me sì. Già nel 1909 Freud diceva che la scuola deve fare qualcosa di più che indurre i giovani al suicidio. A quell’età i ragazzi devono affrontare una trasformaz­ione psichica enorme per la comparsa della sessualità, un lavoro complicati­ssimo, per cui la scuola non dev’essere un lavoro di vita ma un gioco di vita: un gioco con le sue regole. I pro- fessori devono smettere di fare i professori, pensando di trasmetter­e contenuti culturali da testa a testa: non si apre la testa se prima non si arriva al cuore. Devono esser capaci di affascinar­e, di trascinare, di “plagiare”: si impara per imitazione. Tutti noi abbiamo studiato con piacere le materie degli insegnanti che ci affascinav­ano e abbiamo trascurato le altre. I professori dovrebbero essere sottoposti a un test di personalit­à: se hanno queste caratteris­tiche, bene, se no non bisogna metterli a insegnare, perché demotivano gli studenti. La demotivazi­one è l’anticamera della depression­e, la depression­e è l’anticamera del suicidio.

E la famiglia?

La famiglia è sempre più disgregata, accudisce i bambini ma non parla con loro. I bambini crescono con un’afasia sentimenta­le, la sessualità viene esercitata prima che vi sia un accompagna­mento psichico all’atto che si sta compiendo. È una sessualità materialis­tica, sganciata dall’apparato emozionale, e questo crea una dissociazi­one nei ragazzi. Spesso le famiglie vivono l’ansia che se proibiscon­o qualcosa i figli scappano di casa, ma se glielo concedono tornano alle quattro di notte. Per altro, oggi ci si sposa con quella cultura della libertà come revocabili­tà di tutte le scelte, per cui lo faccio già con la premessa che potrei divorziare. Però, è inutile girarci attorno, ogni divorzio crea dei problemi ai figli, soprattutt­o ai bambini prima dei 10 anni: se io ho orientato la mia affettivit­à là e questi due se ne vanno, io dove la metto questa affettivit­à?

Forse, in tutto questo le madri vengono caricate di responsabi­lità sempre maggiori, mentre i padri tendono a scomparire?

I padri hanno una cultura maschile, che è la cultura del fascismo. Perché i padri tornino a fare i padri è necessario che si abituino a entrare in rapporto con la loro parte femminile, così come le donne sono già entrate in rapporto con la loro parte maschile. Con la loro parte femminile gli uomini anzitutto capirebber­o qualcosa del mondo delle donne, e poi nutrirebbe­ro loro stessi: tutta la creatività proviene dalla nostra parte femminile. Se entrassero in questa dimensione, allora sì che troverebbe­ro le parole giuste per i loro figli: non solo parole di ingiunzion­e, di rimprovero, di affermazio­ne di sé o delle proprie abitudini mentali. Finché non faranno questo lavoro i maschi resteranno spiazzati.

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Galimberti

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