Big della rete: resa dei conti?
New York – Ogni giorno un colpo di scena. Prima la scoperta dell’esistenza di un esercito di ‘hacker’ russi che da un palazzo di San Pietroburgo inquinavano il dibattito politico digitale Usa fingendosi attivisti americani: interventi ispirati dal Cremlino per creare scompiglio nelle elezioni presidenziali, mettere in cattiva luce Hillary Clinton e seminare discordia su ogni fronte, dai matrimoni gay al razzismo. Poi l’individuazione di centrali di disinformazione russe anche in territorio americano: ben 250 finti siti di protesta come BlackMatter.Us.com e DoNotShoot.Us.com hanno sede in un villino di Staten Island, quartiere insulare nella baia di New York, sede della Greenfloid LLC, società del russo-americano Sergey Kashyrin.
Si anticipa il processo con l’autoregolamentazione
E mentre Facebook, Google e Twitter, che il primo novembre dovranno affrontare un processo politico-mediatico davanti alle commissioni di Camera e Senato che indagano sul ‘Russiagate’, giocano d’anticipo annunciando impegni di autoregolamentazione per evitare il ripetersi di simili campagne di disinformazione, anche YouTube finisce sul banco degli imputati: la piattaforma video più diffusa al mondo è accusata di aver apertamente agevolato la rete televisiva russa RT nel suo sforzo di conquistare una visibilità mondiale. Posizione che questo ‘network’, da sempre nel cuore di Putin, ha poi utilizzato per rilanciare le campagne degli ‘hacker’ di San Pietroburgo.
Crollo di popolarità
Da mesi i giganti digitali della Silicon Valley, un tempo acclamati come benefici motori del progresso dell’economia e della società civile, devono fronteggiare un crollo di popolarità. Un malessere che si è diffuso per vari motivi: dai posti di lavoro persi per effetto dell’automazione ai traffici sessuali per i quali vengono usati senza problemi i canali dei giganti digitali, a una ‘privacy’ dei cittadini sempre più deteriorata.
Dopo anni di torpore, il Congresso si è svegliato con proposte di legge per responsabilizzare i ‘big’ della rete sui contenuti sessuali o per regolamentare la pubblicità elettorale. Ma c’è anche chi punta a una vera legislazione antitrust contro i nuovi monopoli.
C’è, poi, l’ondata di libri e articoli che da mesi denunciano l’eccessiva concentrazione di potere nelle mani dei cinque giganti Usa dell’economia digitale – Facebook, Amazon, Google, Apple e Twitter – che in molti casi si comportano come monopoli di fatto: da “Move Fast and Break Things” di Jonathan Taplin a “World Without Mind” di Franklin Foer, al recentissimo “The Four” di Scott Galloway, fino all’inchiesta in dieci puntate lanciata dal “New York Times”.
Il detonatore: il Russiagate
Ma il detonatore di questo malessere cresciuto nel corso del 2017 è sicuramente il ‘Russiagate’: la scoperta della profondità delle interferenze russe nella politica Usa transitate attraverso i canali di ‘Big Tech’ che non solo ha lasciato le porte aperte, ma ha addirittura incassato parecchi soldi per pubblicità mirante ad alimentare conflitti in America. Siamo, dunque, a una resa dei conti? Dopo anni di torpore, il Congresso si è svegliato e ora si vede un gran fervore. Proposte di legge per responsabilizzare i ‘big’ della rete sui contenuti sessuali o per regolamentare la pubblicità elettorale, ma c’è anche chi punta a una vera legislazione antitrust contro i nuovi monopoli.
La mossa di McCain
Qui la novità principale è venuta da John McCain: il vecchio leone repubblicano, ai ferri corti col presidente Trump, ha dato la sua adesione alla proposta di legge di regolamentazione della pubblicità elettorale su internet presentata da due senatori democratici: Mark Warner e Amy Klobuchar. Non è una novità da sottovalutare, mentre le indagini sul ‘Russiagate’, che andranno ancora avanti a lungo, continueranno a tenere sotto pressione Facebook, Google e Twitter. Ma le possibilità che tutto questo si traduca in leggi efficaci sono assai esigue. In teoria gli argomenti per un intervento sulle posizioni monopoliste (Google che controlla quasi il 90 per cento dei motori di ricerca, Amazon al 74 per cento del mercato degli e-book mentre Facebook, con le sue Instagram, WhatsApp e Messenger, domina, col 77 per cento, il traffico delle reti sociali) sono solidi. Appelli in questa direzione vengono dal mondo dell’economia, dell’accademia e perfino da scienziati dell’intelligenza artificiale come Yoshua Bengio, uno dei padri del ‘machine lerning’, secondo il quale se il domino dei mercati è un serio problema economico, non vanno sottovalutati i rischi per la democrazia che possono derivare da un’eccessiva concentrazione di potere tecnologico in campi che possono cambiare i destini dell’umanità. Restando, poi, alla questione dibattuta in questi giorni, la pubblicità elettorale, non si vede perché i giganti di internet non debbano essere sottoposti agli stessi vincoli a suo tempo imposti a tv, radio e giornali. In pratica, però, è assai improbabile che si entri in una fase di rigida regolamentazione delle attività di ‘Big tech’. E questo non solo per il prevedibile fuoco si sbarramento della potente ‘lobby’ delle aziende della Silicon Valley, ma anche perché in Congresso ad avere la maggioranza è il partito della ‘deregulation’, quello repubblicano. Scosso dal ‘Russiagate’ ma non fino al punto di capovolgere le sue posizioni. Qui pesa anche l’atteggiamento di Facebook e Twitter che, capito il rischio che stavano correndo, sono corse ai ripari annunciando progetti di autoregolamentazione proprio alla vigilia del ‘processo’ in Parlamento. Il copione l’ha già scritto in alcune pre-audizioni Randall Rothenberg, capo di IAB, associazione lobbistica che rappresenta le aziende digitali: “Dobbiamo fare di
più, essere più trasparenti, ma facciamo da soli. L’autoregolamentazione è più efficace di una legge generale”.
Credeteci sulla parola
Come al solito Silicon Valley chiede di essere esentata dalle regole, di essere creduta sulla parola. Stavolta non dovrebbe funzionare davanti all’evidente fallimento dei controlli interni fin qui predisposti. Ogni vincolo riduce il traffico e, quindi, i profitti: serve una legge perché nessuna azienda ha interesse a introdurli. Forse stavolta accadrà, ma le difficoltà sono formidabili. Da un lato quelle giuridiche: difficile, ad esempio, prevedere una norma di protezione dei dati personali che si applichi a Facebook, Google e Twitter ma non alle società di marketing, alle telecomunicazioni, alle tv o al settore del credito. Dall’altro quelle politiche: non solo molti parlamentari preferiscono non sfidare giganti tecnologici che possono metterli in cattiva luce davanti al loro elettorato ma è diffusa la sensazione che in tutte le elezioni – dal Congresso ai voti locali per governatori, sindaci e perfino i consigli scolastici – ci sia ormai un folla di candidati vogliosi di usare Facebook come ha fatto Trump nella campagna 2016.