Il mondo in crisi e le sue sfide
Da parecchi anni stiamo vivendo, collettivamente, una crisi che si espande in molteplici settori: economico, ecologico, tecnologico, politico, sociale, culturale. Che essa esista, è generalmente riconosciuto: semmai opinioni diverse sussistono circa la sua portata, e la sua pericolosità per il futuro. Del resto, la storia è fatta anche da crisi che ricorrono non a scadenze fisse, ma frequentemente: la nostra appare particolarmente rilevante per il fatto che essa coincide con un periodo di incessante e continuo sviluppo tecnologico, con i suoi lati positivi e con quelli negativi: la globalizzazione, dovuta all’espansione delle comunicazioni, di qualsiasi tipo, sta gradatamente eliminando parecchie diversità a livello mondiale producendo una uniformità pericolosa; la proliferazione delle armi, e in particolare di quelle atomiche, sempre più perfezionate, genera una paura sempre più generalizzata; i problemi ecologici, con l’inquinamento sempre più accentuato e con una insoddisfacente risposta da parte delle istanze competenti, aprono prospettive assai inquietanti. Il tutto porta a un disagio che si diffonde in tutte le società, in tutte le classi sociali, sia a livello economico che a livello di qualità di vita. Molto numerose sono le pubblicazioni che si sono occupate dell’attuale crisi; di particolare rilevanza appare un libro-intervista, recentemente apparso, di Edgar Morin, classe 1921, sociologo e filosofo francese notissimo, dal titolo molto significativo: “Le temps est venu de changer de civilisation”. Una questione di civiltà, quindi, poiché l’autore precisa immediatamente che si tratta di una “crisi planetaria” che attraversa tutta l’umanità. La quale vive un processo sia di disgregazione sia di integrazione. La prima causata dai pericoli ecologici ed economici, come pure da quelli derivanti dalle armi nucleari e dalla paura del fanatismo terrorista. Una realtà che dovrebbe creare una solidarietà umana, una coscienza collettiva, la quale invece scompare di fronte a sentimenti di dissociazione, di frammentazione che producono una miriade di identità, di tipo nazionale o religioso. È il fenomeno diffusissimo dellapaura dello straniero, dell’Altro. Un sentimento che non va confuso con il patriottismo, che Morin difende, premesso che va corretto l’errore commesso agli inizi degli anni 90, quando prese forma l’unificazione tecnicoeconomica del globo (in coincidenza temporale con l’esplosione dell’impero sovietico). A quell’epoca non si cercò di riunire i due principi in contraddizione tra loro: mondializzare (per favorire le comunicazioni utili alla comprensione e alla solidarietà fra i popoli) da una parte, e demondializzare (per salvaguardare le prerogative dei singoli territori e nazioni) dall’altra. È in questo contesto che si inserisce la nozione di patriottismo, il quale, dice l’autore citato, “va rivitalizzato in opposizione a una mondializzazione tecnico-economica, anonima, senz’anima – mentre dobbiamo sentirci uniti alla terra-madre (‘matrie terrestre’, nell’originale) dalla quale perveniamo”. È necessario proteggere gli interessi nazionali vitali per evitare deserti umani ed economici. Di fronte a questa crisi epocale, e ai diversi sentimenti di insicurezza e anche di paura che essa provoca in tutto il mondo, Edgar Morin non propone, e del resto sarebbe quasi impossibile e totalmente presuntuoso farlo, precisi rimedi. Guardando però, secondo le sue convinzioni politiche, a ciò che dovrebbe essere la sinistra, egli ritiene che essa debba ricercare il pieno sviluppo (“epanouissement”) dell’individuo, nella coscienza di non essere che (...) Segue a pagina 22