Il ‘teatro-rito’ di Ledwina Costantini
Chi un po’ frequenta il teatro, anche solo nel microcosmo svizzero-italiano, avrà visto come le sue frontiere siano oggi quanto mai ampie. In un certo senso, paradossalmente, l’arte più antica è quella spesso più coraggiosa, più moderna. Lo spazio della scena viene riconsiderato, esplorato nelle sue potenzialità, condiviso con il pubblico; il testo non di rado contaminato, scarnificato, ridotto a elemento accessorio, quando le risorse della parola non vengano del tutto azzerate; e pure l’attore perde il suo ruolo, la sua centralità fisica, finendo espulso dalla scena. Quel che non viene meno, ci pare, è il ruolo della regia, tanto più importante quanto più mette alla prova gli elementi costitutivi del teatro. Ledwina Costantini, con la sua Opera RetablO, rappresenta in Ticino una delle punte più estreme e più interessanti di questa ricerca estetica e comunicativa applicata alle risorse della scena. Con ‘Dahü’, visto martedì al Teatro Sociale, ha messo in piedi una coproduzione fra Bellinzona, Neuchâtel e Monthey per indagare il valore del rito, la sua necessità, così come si è manifestata nel corso della storia umana. In particolare, lo spettacolo – o meglio il “rito-teatro” diretto da Ledwina Costantini – porta in scena alcune maschere tipiche di diverse regioni svizzere, fra cui il Dahü, animale leggendario di varie regioni montane europee. Allo stesso spettatore, all’ingresso in sala, viene consegnata la sua maschera, per un rito condiviso. Dopo un monologo che sembra tratteggiare la lacerazione identitaria dell’uomo moderno – con il campionario delle sue paure, tradizionalmente esorcizzate dai rituali sociali – ‘Dahü’ abbandona la parola per aprire il suo rito, in una scena essenziale ma curata in ogni dettaglio, che invade lo spazio della platea (svuotata dei posti a sedere e condivisa con il pubblico). Accompagnato da musiche avvolgenti e perturbanti, segnato da un simbolismo esasperato (terra, acqua, fuoco...) e per certi aspetti faticoso, lo spettacolo-rito di Ledwina (che con coraggio espone il suo corpo) sembra puntare alla radice dell’umano, ripulito dei suoi orpelli e trasfigurato, al cuore di un’animalità senza tempo, in cui la morte è reiteratamente trascesa dalla vita che si rigenera. Ma ‘Dahü’ e le sue maschere non lasciano certezze, sfuggono ogni lettura; e non sappiamo fino a che punto sia un merito o un limite.