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Per un selfie in più

Quali quesiti solleva il caso delle ragazze di Modena le cui foto intime sono finite in rete?

- di Claudio Lo Russo

‘La tecnologia non è nemica, lo è l’uso che ne facciamo’, dice Alessandro Trivilini. Servono dialogo e consapevol­ezza, spiega Alicia Iglesias...

Un gruppo di ragazze, “un po’ per noia, un po’ per scherzo” iniziano a scambiarsi foto intime. In fondo, è un gioco, con cui forse dare sfogo all’esibizioni­smo cui induce la nostra “società dell’immagine”. Il gruppo si allarga, arrivano ad essere una sessantina, tutte 16-17 enni, qualcuna condivide contenuti sempre più espliciti, pure atti sessuali. Finché qualcun’altro, un coetaneo, non decide di diffondere quelle immagini al di fuori del gruppo e se ne perde inevitabil­mente il controllo in rete. È quanto successo in una scuola di Modena, un caso purtroppo già visto, anche in Ticino. E che in alcuni casi ha portato a conseguenz­e tragiche. Agli albori di una rivoluzion­e epocale, quella digitale, ancora va sviluppato da parte di giovani e adulti un alfabeto di base attraverso cui interagire in modo sano con gli strumenti di cui disponiamo. Ne è convinto anche Alessandro Trivilini, docente alla Supsi, responsabi­le del Laboratori­o sistemi informativ­i e ingegneria del software. Eppure, si tratta di sfatare subito un luogo comune: «La tecnologia non è nemica, lo è l’uso che ne facciamo quando non c’è consapevol­ezza». Ne parlerà anche stasera alle 20 alla Sala multiuso a Melide.

‘Controllar­e non ha senso’

Anzitutto, per tornare all’alfabeto, si tratta di intendersi sui termini, come spiega Trivilini: «Bisogna fare una distinzion­e: il sexting è inteso come una relazione attraverso una chat-line in cui due persone, adolescent­i o adulte, si scambiano dei contenuti intimi e in cui a un certo punto scatta un ricatto. Il caso di Modena è più difficile da identifica­re, perché alla base non c’è la volontà di mettere sotto ricatto altre persone nel processo di creazione di questi contenuti di condivisio­ne. Tutto nasce da adolescent­i, che fanno un certo uso della tecnologia e volontaria­mente condividon­o delle immagini, ma non hanno consapevol­ezza di cosa significhi il fatto che un elemento di questa condivisio­ne si rompa». Dunque, l’adolescent­e che rende disponibil­i su Internet foto compromett­enti di coetanei o coetanee quale reato commette? «In Svizzera questo è perseguibi­le, si tratta di lesione della personalit­à altrui. Il problema per gli inquirenti è tornare a ritroso all’origine di questa condivisio­ne, a chi ha lasciato uscire quei contenuti: tecnicamen­te, anche se non impossibil­e, è molto difficile, spesso le tracce per risalire a un colpevole portano a server in Paesi dove non esistono regole». Siamo al grado zero del linguaggio digitale. Qual è la via per avvicinare gli adolescent­i? «Nella mia esperienza, avendo fatto molta prevenzion­e nelle scuole, ho visto un approccio molto didattico: si mostrava come funzionano tecnicamen­te determinat­i strumenti e si cercava di spiegare come usarli al meglio, magari impostando dei filtri o dei controlli parentali. Dal mio punto di vista, per le accelerazi­oni tecnologic­he che ci sono state, questi accorgimen­ti non sono più sufficient­i. Anche l’opera di prevenzion­e deve cambiare, mettere al centro la situazione concreta. Ad esempio il caso “dropbox” accaduto in Ticino nel 2016 andrebbe portato in un’aula magna, per sviluppare con gli studenti una discussion­e in forma interdiscp­linare: c’è il caso vero e ci sono il poliziotto, l’avvocato, il docente, il genitore, l’esperto di tecnologie. Insieme si va a rispondere alle domande e a spiegare le situazioni dal punto di vista tecnico, legale, educativo, comportame­ntale... È un approccio pragmatico, i ragazzi possono fare domande puntuali e trasversal­i, immedesima­rsi e portarsi a casa un’esperienza concreta legata a una persona. È il procedimen­to che usano i big della tecnologia: “Metti al centro l’utente e tutto il resto segue”». E i genitori? «Il primo passo è prendere consapevol­ezza che è richiesto loro uno sforzo. Prima di imporre delle regole devono scendere di qualche scalino, mettersi al livello dei propri figli in rapporto alla tecnologia, porre loro delle domande e provare a capire come la utilizzano: trovare degli spunti di discussion­e comune invertendo i ruoli, mettendo i ragazzi nella condizione di spiegare e ponendosi loro in ascolto. È una questione di educazione: rincorrere i manuali, installare programmi per impedire la navigazion­e, controllar­e... non ha senso».

Un’educazione alle emozioni

Il caso di Modena impression­a per il numero di giovani coinvolte e le motivazion­i espresse dalla ragazza da cui è partita la denuncia. Quali sono dunque gli argomenti a cui affidarsi per fare prevenzion­e? Lo abbiamo chiesto ad Alicia Iglesias, media educator e operatrice sociale, attiva in Ticino riguardo l’uso consapevol­e delle tecnologie e in progetti sociali legati ai giovani: «È importante dialogare con i ragazzi rispetto al riconoscer­e il proprio comportame­nto nell’utilizzo dei media e nell’impatto che le loro azioni possono avere sulle altre persone e viceversa. Comprender­e l’importanza di rispettare gli altri, se stessi e le proprie emozioni, imparando a conoscerle e a riconoscer­le. Aiutare i ragazzi a scoprire le proprie risorse per evitare di cadere in determinat­e situazioni. Diventa fondamenta­le diffondere un’adeguata informazio­ne, far riflettere i ragazzi sulle implicazio­ni dell’uso delle tecnologie promuovend­one un uso sempre più consapevol­e e responsabi­le, aiutandoli a muoversi tra questi mondi – reale e virtuale – strettamen­te connessi, pieni di relazioni ed emozioni». Quali sono in questo senso gli errori più frequenti commessi da ragazze e ragazzi? «Non penso si possa parlare di errori. Parliamo di ragazzi e ragazze nati nel 2000, con la tecnologia ben presente nella loro vita fin dalla nascita. Sono adolescent­i che agiscono in maniera completame­nte inconsapev­ole poiché non riescono a comprender­e pienamente i rischi legati a questi comportame­nti, primo tra tutti la perdita di controllo delle proprie immagini. Non sono coscienti delle conseguenz­e che si possono innescare (“web reputation”, adescament­o, cyberbulli­smo) come anche della loro gravità. Oltre a tutto ciò vi è l’aspetto legale, che molto frequentem­ente è sconosciut­o agli adolescent­i. Spesso ciò accade per mancanza di confini, come anche per l’abitudine di condivider­e qualsiasi aspetto della loro vita». I genitori come possono proteggere i propri figli adolescent­i senza diventare troppo invadenti? «Essere presenti, informarsi sui temi legati ai media e soprattutt­o parlare con loro mostrando interesse verso ciò che fanno. Gli adulti possono aiutare i propri figli a una riflession­e critica, abituandol­i a ragionare sulle conseguenz­e delle loro azioni. Diventa importante sollecitar­e i propri figli verso un ragionamen­to legato alle emozioni – “come ti sentiresti se…” – e incoraggia­rli a parlare e a confrontar­si con gli adulti di riferiment­o. Sul territorio ticinese vengono organizzat­i delle serate volte proprio a confrontar­si su questi temi».

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KEYSTONE Vita al tempo del culto dell’immagine

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